Utente
4 febbraio, 2018
Riproduzione Sessuata
Fermo restando che gli alberi piangono foglie in autunno che avessi impellente necessità di giocare quella pazzesca di Ellen Sheidlin prima di far fagotto e andare a casa, ho deciso di chiudere anche il mio ciclo vitale al museo da dove ero partito, unendo la concenzione biologica a me tanto cara a quell'artistica.
Ellen è una modella e artista russa, che ha acquistato una buona popolarità sui social grazie al suo immaginario unico e mozzafiato, le sue opere fotografiche surrealistiche in cui si autoritrae sotto una lente di immaginazione e distacco dalla realtà, a volte in maniera fortemente critica, spudorata, altre in termini innocenti e sognanti.
Ho preso tre sue opere che mi affascinano molto e che nascono separatamente e completamente avulse le une dalle altre, e le ho unite in una storyline che mi hanno naturalmente evocato, riproducendo attraverso la sua arte la metamorfosi del processo di riproduzione sessuata.
Si parte dal magnetismo dell'attrazione e dell'accoppiamento, in cui si evince il lato più spudorato di Ellen nel rappresentare le sue idee, e una delle sue rappresentazioni meno surrealistiche ma più terrene, come il gesto stesso così naturale e a tratti animalesco, un richiamo forte verso il partner per una spinta intrinseca.
Successivamente l'atto della fecondazione, in una delle immagini che invece esaltano il lato fiabesco e visivamente armonioso dell'arte di Ellen. Qui ritroviamo la cellula uovo, rappresentata da una sfera floreale, che viene abbracciata da una scarica di semi maschili, candidamente metaforizzati dalle farfalle, pronti a benedire il magico incontro che permetterà lo sviluppo di una nuova vita.
Infine la procreazione, la nascita, la cellula che diviene organismo e man mano cresce e si trasporta, in quest'opera che delicatamente ci accompagna nel surrealismo di Ellen, che fa di uno scenario così basilare, un'epopea di fantasia artistica. Qui lei rinasce, come la nostra creatura alla fine del nostro ciclo.
Utente
30 aprile, 2020
LE PERCEZIONI DELLA MEMORIA
Per questa Sala conclusiva la mia idea era quella di creare un'esperienza che fosse il più ampia possibile, attingendo a diverse forme d'arte, che avessero, però, un tema comune denominatore corrispondente al titolo della Sala. Una volta definito il tema, mi sono concentrata sulla scelta delle opere, in modo tale da costruire l'esperienza di cui parlavo.
La prima opera a cui ho pensato appartiene a un pittore che, tra l’altro, adoro per il suo simbolismo enigmatico.
René Magritte - La Memoria
Magritte raffigura la memoria con la testa di una statua femminile, assorta nei suoi pensieri e con gli occhi chiusi. Metà volto è avvolto nell’ombra, mentre sull’altra metà appare una macchia rossa. Accanto alla testa, sono collocati una sfera e una foglia, alle sue spalle, si apre un sipario che lascia vedere un cielo percorso da nubi.
Inevitabilmente, l’occhio dello spettatore è attratto da quella macchia rossa che sgorga dalla testa raffigurante la Memoria. E in quel momento si scioglie l’enigma del dipinto. Quando riaffiora alla mente il ricordo di un evento doloroso, si percepisce la sensazione di riaprire una vecchia ferita che torna a sanguinare. Magritte in questo dipinto ha reso visibile il dolore dell’anima provocato dalla rievocazione.
Come seconda opera, dopo aver attraversato il risvolto più amaro della memoria, passerei al lato più dolce e nostalgico, con l’installazione fotografica di un’artista norvegese.
Iren Gule - Ritual memory
Il fascino della fotografia, per me, consiste nella possibilità di fermare un istante e renderlo eterno. Iren Gule ha reso omaggio al potere di questa forma d'arte realizzando un’installazione che vede protagoniste alcune fotografie di famiglia tratte da un album fotografico scoperto per caso da un rigattiere nel 2006.
Le foto, ingiallite e rovinate dal tempo, risalgono alla prima metà del ‘900 e ritraggono giovani donne, uomini, bambini in attimi spensierati o intenti nelle loro occupazioni. Raccontano momenti della vita di quelle persone, destinate inevitabilmente a cambiare seguendo il corso della loro esistenza, tuttavia, osservando quelle foto, è possibile rivivere tale momento come se il tempo si fosse fermato.
A un certo punto del video, appare la foto di una coppia e poi di quelli che presumo essere i loro figli. Non mi è difficile immaginare oggi i nipoti di quella coppia sfogliare l'album e scoprire le immagini dei loro nonni da giovani. Un po' come è accaduto a me anni fa quando, riordinando un cassetto della casa, ora disabitata, appartenente alla famiglia di mia madre, trovai un vecchio taccuino con alcune foto che ritraevano i miei nonni a vent'anni... giovani, spensierati e innamorati.
Un album fotografico di famiglia custodisce le origini, la storia, mantiene vivo il ricordo del passato, testimonia agli altri una fase della vita che, altrimenti, apparterrebbe solo alla memoria di chi l’ha vissuta.
Se l’installazione di Iren Gule celebra il passato, la terza opera che ho scelto ha una connotazione decisamente futuristica. Si tratta dell’installazione realizzata dall’artista multimediale Refik Anadol che raffigura come il cervello evoca i ricordi.
Refik Anadol - Melting memories
Per arrivare alla creazione di questa opera, Anadol ha condotto alcuni esperimenti al Laboratorio Neuroscape dell'Università della California, raccogliendo dati sui meccanismi neurali del controllo cognitivo da un EEG (elettroencefalogramma) che misura l'attività delle onde cerebrali e registra il funzionamento del cervello nel tempo.
In seguito, ha utilizzato il set di dati raccolti per creare gli algoritmi su cui si basa il software con cui ha creato le strutture visive multidimensionali della sua installazione "Meeting Memories". Per questo, lui stesso definisce la sua opera un insieme di sculture e dipinti di dati.
Si tratta di un'opera, a mio avviso, davvero affascinante, che fonde tecnologia, arte e scienza per restituire allo spettatore un'esperienza unica: la possibilità, per la prima volta, di vedere con i propri occhi ciò che avviene nella mente quando si evocano i ricordi. La percezione della memoria, principalmente a carattere emotivo nelle precedenti opere, qui assume una dimensione sensoriale.
I ricordi umani, tramite l'intelligenza artificiale, si tramutano in forme di dimensioni e consistenze differenti, assumono le sembianze di fiori che sbocciano, montagne viste dall’alto, nubi, onde e ghiacciai, masse di sabbia spostate dal vento. Possiamo vederli, sembra quasi di poterli toccare. Possiamo superare la sottile linea che delimita il confine tra visibile e invisibile.
Utente
7 ottobre, 2018
In Deepest Blue
Dietro queste mie scelte finali non si annida un particolare ragionamento (forse dirlo non rappresenta il migliore biglietto da visita possibile ma lol). Nel mio cellulare ho tempo fa creato la cartella Art, che vado di volta in volta arricchendo con opere che vado conoscendo e dalla quale ho estratto quasi tutte quelle che ho deciso di esporre in questo nostro museo così speciale e sui generis. Così, anche le prime due delle immagini che compongono questo mio trittico (Sappho e DyD) da lì vengono e sono lavori che avevo valutato di usare anche in sala precedenti, mentre la terza, Intimacy with Christ, è un dipinto in cui mi sono imbattuto la settimana scorsa, mentre ero intento nella ricerca di materiale queer e che mi ha travolto e trafitto, è un'opera che sapevo avrei scelto come commiato a prescindere da quello che sarebbe stato il tema finale.
Se è vero che le tre opere non risultano essere legate da qualcosa di oggettivo e specifico (né per artista, né per corrente artistica, né per soggetto né altro), penso che insieme si presentino comunque molto bene, con quelle varie tonalità di blu che si fanno sempre più profonde da un lavoro all'altro, blu che si fa sfondo di stati d'animo e sensazioni impresse sulla tela (o sulla carta, come nel lavoro di Cavenago) in maniera sempre più intensa e, per quel che mi riguarda, dirompente. La splendida canzone di Joshua Hyslop In Deepest Blue (terza classificata nella categoria Introspezione in Stati d'animo 3A) mi ha suggerito il titolo più idoneo per questa esposizione finale.
Il dipinto dell'artista svizzero Ernst Stückelberg (1831-1903) ha dei tratti molto malinconici, ma allo stesso tempo anche placidi, quieti, come l'azzurro scintillante della distesa marina, 'crudele' perché sembra sfidare la poeta Saffo a lanciarsi, a gettarsi tra le sue acque gelide ma allo stesso tempo così splendenti e serene. La stessa ambivalenza si ritrova nella donna, il cui volto è ermetico, la cui posa precaria suggerisce pericolo, forse la voglia di precipitare, mentre il panneggio della veste, le rose infondono delicatezza e bellezza. Trovo poi molto suggestiva la visione dei templi che si scorgono, aguzzando la vista, all’orizzonte.
Il vero e proprio dipinto in digitale di Gigi Cavenago, il copertinista attuale della serie regolare di Dylan Dog, dal tratto decisamente espressionista, è pervaso di mistero e inquietudine. Le acque sono molto più crespe e attive di quelle che cercano di sedurre Saffo nel dipinto precedente, e imprigionano e incorniciano un volto di difficile decifrazione: la persona protagonista (è irrilevante che sia un personaggio specifico, potrebbe davvero essere chiunque) è vittima di un oblio imperituro, è in preda all’estasi più ineffabile, è – per fare una citazione dylaniata - un ‘riflesso nello specchio dell’anima’? Come le rose di Saffo, le foglie autunnali che si posano sulla superficie aequorea donano all’insieme delle piacevoli suggestioni di una dolce malinconia che attenua l’intensità creata dall’espressione del volto dell’uomo.
Infine, la tela di Richard Stott, pastore metodista e art therapist, è l’ultima di un trittico che l’artista ha dedicato al rapporto tra spiritualità e sessualità, dove un Cristo risorto e un giovane amante si abbandonano a un travolgente eros (nel caso in cui qualcuno avesse voglia di dare un’occhiata alle altre due parti, avviso che la prima è abbastanza esplicita). Qui sembriamo trovarci vicini al metafisico, il blu è ormai denso e scurissimo e sembra attorniare l’avvinghio dei due corpi in una dimensione irreale e aerea, in contrasto con la fisicità scultorea dei due uomini, umanissimi nella loro corporeità fatta di sangue, vene, cicatrici, pulsioni, e allo stesso tempo così lontani da noi, persi in una ebbrezza e in un rapimento senza fine nel tempo e nello spazio.
Utente
27 febbraio, 2020
A WOMAN’S TEAR
Porto in finale questa mostra che ha come tema la violenza sulle donne.
Partiamo dalla prima opera, la più antica delle tre: Susanna e i vecchioni (1610), dipinto dalla pittrice Artemisia Gentileschi quando aveva solo 17 anni. Tratta di una vicenda dell’Antico Testamento: Susanna subisce un ricatto sessuale da parte di due vecchi che la sorprendono al bagno, e se non acconsentirà alle loro richieste verrà accusata di adulterio. La figura della protagonista è rappresentata svestita, fragile, con le spalle al muro, schiacciata in un angolo dai personaggi dei due uomini che incombono su di lei dall’alto. La sua espressione è sofferente, rivela il disagio che prova nell’essere intrappolata in quel modo mentre cerca con le mani ad allontanare le inopportune attenzioni che le vengono rivolte. Il volto di Susanna è un autoritratto dell’autrice e, visto che lei stessa avrebbe subito una violenza sessuale negli anni seguenti a opera di un collega del padre, lascia riflettere il fatto che abbia in qualche modo riprodotto su tela il tipo di aggressione e di tormento che l’avrebbe segnata in futuro.
La seconda opera, The Irritating Gentleman (1874) di Berthold Woltze, è stata la prima che ho scelto e quella che mi ha dato lo spunto per il tema di questa mostra temporanea. Viene rappresentata anche qui una giovane alle prese con attenzioni indesiderate, e l’impostazione delle figure ricorda molto quella di Susanna e i vecchioni: la donna seduta (in questo caso in una carrozza di un treno) e un uomo che incombe alle sue spalle, appoggiato e inclinato verso di lei. Anche qui l’uomo è decisamente più vecchio della ragazza: ha un sigaro acceso tra le dita, segno che probabilmente sta già imponendo sulla giovane l’odore del suo fumo, e l’atteggiamento di chi non si rende conto che le sue attenzioni sono desiderate. Forse lui non riesce a scorgere il volto della fanciulla, ma noi lo vediamo, così come vediamo il suo sguardo tra il rassegnato e il disperato, e quell’unica lacrima che le scende lungo il viso. La giovane sembra incapace di togliersi da quella situazione scomoda, anche lei come Susanna è in qualche modo intrappolata in un angolo. L’altro personaggio nel quadro, un uomo di cui vediamo solo il volto, ha lo sguardo rivolto verso il basso e non sembra accorgersi della silenziosa richiesta di aiuto della giovane.
Come terzo e ultimo elemento della mostra, invece, ho scelto qualcosa di molto più radicale ed esplicito, un’opera contemporanea di Sue Williams: Irresistible (1992). Con questa scultura di donna malconcia in posizione fetale a terra, con lividi e impronte di scarpe, l’artista si rifà non solo alla violenza che molte donne subiscono da parte dei loro compagni, ma anche a quella di cui lei stessa era stata vittima. Il corpo della statua è cosparso di scritte, tra cui “The No. 1 cause of injury to women is battery” e “Look what you made me do”. La prima vuole ricordare quante donne vengano picchiate e subiscano episodi di violenza domestica, la seconda è la tipica frase dell’aggressore che rigira la colpa sulla vittima. Il posizionamento delle varie scritte, poi, fa sì che chi le voglia leggere debba girare attorno alla scultura, e sia così costretto a metabolizzare meglio il messaggio dell’opera invece che andarsene via subito.
E così, con queste tre opere, concludo la mia esperienza a Museo portando un tema che mi coinvolge molto e cercando di mostrarne tre diverse rappresentazioni in tre diverse epoche: un ricatto nella sua forma più vile, delle attenzioni indesiderate da cui non ci si riesce a liberare e le conseguenze concrete di una mentalità sbagliata.
Moderatore Junior
7 agosto, 2013
INSIDEART
Premessa: elaborare una sala finale con tre opere non è stato affatto un lavoro facile. Mi venivano un sacco di idee, ma sentivo che mancava sempre qualcosa. Questo poiché volevo che questa sala sintetizzasse a suo modo il mio percorso all'interno di Museo2, non limitandosi a un'unica forma artistica. Alla fine ho poi avuto l'illuminazione, grazie anche alla volontà di portare in particolare due degli artisti che trovate in questa sala, che seguo e apprezzo moltissimo e perché volevo restituire un'esperienza unica nel suo genere dell'arte tradizionale. Vado a spiegarvi dunque perché InsideArt dovrebbe sintetizzare il mio percorso e, in generale, le varie forme d'arte.
InsideArt nasce con l'idea di vivere l'arte da dentro, o meglio di dare la possibilità allo spettatore di vivere dentro l'opera d'arte. L'io che osserva diventa anch'esso protagonista del lavoro, avendo così la possibilità di raggiungere un'esperienza totalizzante con l'arte. Il concetto di arte immersiva non è sicuramente nulla di nuovo e ve ne ho dato un esempio nella sala dedicata alla luce, ma in quel caso ti trovavi immerso in qualcosa che era "naturale" e non "artistico". Le opere immersive solitamente si avvalgono del digitale per permettere allo spettatore di immergersi in un'esperienza sorprendente. In InsideArt, invece, il soggetto si trova catapultato all'interno di opere e forme d'arte tradizionali, senza l'aiuto del digitale (come accade ad esempio nelle mostre immersivi dedicate a Van Gogh o altri pittori): il disegno, la fotografia e il design (in questo modo ho potuto anche sintetizzare le varie forme d'arte che ho portato nel contest). Grazie a questa esperienza lo spettatore si sentirà "circondato" dall'opera d'arte, che lo ingloberà a sé e vivrà tutto intorno a esso. InsideArt è pensato come un vero e proprio percorso tra le forme d'arte, ma anche tra il colore: si passerà dal bianco e nero, ai colori tenui e terrosi, fino all'esplosione del colore.
DISEGNO
Per il disegno verrete catapultati dentro quest'opera dell'artista nippo-brasiliano Oscar Oiwa, noto per le sue illustrazioni magiche, fatte di vortici e onde. In Paradise, vi troverete circondati da un disegno realizzato totalmente a mano dall'artista, all'interno di questa struttura a cupola. Vivrete dentro al disegno, che si espande sopra, sotto e a tutti i lati della struttura, trovandovi catapultati in un paradiso misterioso. Tutto il dipinto è realizzato appunto a mano, solo con un pennarello nero. Vi lascio quindi immaginare il lavoro meticoloso per realizzarlo. Pensate a quei bellissimi vortici che sembrano dipinti e invece sono il risultato di tanti piccoli dettagli neri per dare la giusta sfumatura. Per realizzare il tutto ovviamente Oiwa si è dovuto servire di impalcature, proprio come i grandi pittori del passato chiamati a dipingere alte cupole (vi consiglio di cercare su YouTube dove troverete un'efficace spiegazione di come è stato realizzato il tutto). Io ho sempre apprezzato i disegni di Oiwa, ma con ques'opera e con la successiva Dreams of a Sleeping Word trovo si sia superato, proprio perché ha voluto dare allo spettatore la possibilità di essere egli stesso protagonista dei suoi meravigliosi disegni.
FOTOGRAFIA
Per la fotografia ho scelto una delle tante opere di Chris Engman, fotografo naturalistico di fama internazionale. Negli ultimi anni Engman ha esplorato nuove possibilità offerte dalla fotografia, con l'intento, proprio come Oiwa, di portare lo spettatore "dentro" la foto. Le sue opere sono quindi vere e proprie "stanze" in cui lo spettatore vive dentro lo scatto. Queste strutture sono realizzate non con una proiezione digitale della fotografia, bensì con pannelli ritagliati dalla gigantografia dello scatto realizzato nei viaggi del fotografo. In Landscape for Quentin questa idea trova secondo me la sua massima espressione, perché si ha l'impressione di camminare davvero nel deserto, vagando per le stanze della struttura. Il tutto è realizzato in modo che in ogni posizione si abbia la percezione di avere davanti a sé la fotografia nella sua interezza, mai scomposta. Quindi, immaginate anche qua il lavoro meticoloso perché tutto combaci. Ad esempio, nello scatto che vedete, potete notare come l'ombra combaci perfettamente, seppur una parte sia nell'altra stanza. Insomma, anche qui vi troverete a vivere dentro la fotografia e a vagare in essa, perdendovi in queste stanze color seppia, ma in fondo anche un po' nel deserto.
DESIGN
L'ultima sala vuole celebrale una dei più geniali artisti, per quanto mi riguarda, dei nostri tempi, Yayoi Kusama. Le opere di Yayoi sono nate fin dagli esordi con l'intento di dare un'esperienza unica allo spettatore, stupendolo e catapultandolo in mondi unici, colorati e bizzarri. La particolarità di Infinity Mirrors è però quella di aggiungere un elemento di innovazione. Per il design l'esperienza immersiva è sicuramente più facile perché ti basta camminare in una sala, essendo questa forma d'arte non bidimensionale. Questa sala, invece, ha la particolarità di rendere il bidimensionale in 3D, espandendolo nello spazio. Lo spettatore, infatti non è totalmente dentro la sala, ma infila la testa dentro delle fessure che danno su di essa. In questo modo si trova dentro l'opera: un insieme di luci e specchi, che grazie a questi ultimi offrono l'impressione che tutto si moltiplichi, dando vita a una vera e propria opera d'arte, fatta di disegni geometrici dai colori sgargianti, ottenuti soltanto grazie alle luci e alla loro moltiplicazione nello spazio (luce, un tema che abbiamo incontrato nel percorso di Museo2). In questo modo, lo spettatore avrà quale impressione? Ça va sans dire, ovviamente quella di essere circondato dall'opera d'arte e di essere uno dei soggetti di essa.
Che dire quindi in conclusione? Spero che, anche solo con l'immaginazione, vi sia piaciuto immergervi, nel vero senso della parola, in queste opere.
E qui chiudo, spiegando anche il motivo principale che mi ha spinto a optare per questo tema: per me arte vuol dire immersione, perdersi nelle opere e sentirsi un po' loro protagonista. In questa sala tutto questo diventa realtà!
Utente
5 aprile, 2018
UN NUOVO EDO
Rivedendo tutto il mio percorso, ho notato che un fil rouge che ha collegato tutte le mie scelte era la mia persona e il percorso di cambiamento esteriore(da settembre 2019 ho perso 19 kg: certo vorrei perdere ancora un paio di kg ma sono 76 chili per 1,80 quindi se li perderò bene se no rimarrà un po' di pancetta ma senza drammi anche perchè sono normopeso quindi non vale la pena farsi inutili paranoie) ed interiore che sto affrontando con la psicoterapeuta.
Durante la sala minimalista ero indeciso se giocare “Inside Out” di Laura Aldofredi, mia cara amica nonché ex compagna di banco al liceo, con la quale condividevamo la passione per la musica e l'estetica goth e venivamo percuxati dai fighetti della nostra classe, oppure la scultura “Rinascita” di Giovanni Morgese, tratta dal progetto “A Ferro e Fuoco”, del 2014.
Dato che alla fine giocai “Inside Out”, mi era rimasto un po' il pallino di volere mostrare questa scultura di Giovanni Morgese. Da lì ho ricamato tutto un racconto coinvolgendo 3 forme d'arte differenti: pittura, scultura e fotografia.
L'AURORA
La prima opera che ho scelto di portare è “L'Aurora”, olio su tela, di Salvador Dalì del 1948.
L'uovo nell'arte di Dalì rappresenta la creazione e questo guscio a metà che racchiude il sole, che richiama il tuorlo, la ho trovata un'opera di una potenza incredibile: dove la luce di un giorno raccoglie il senso più alto di indicare una nuova vita, che non è ancora visibile sotto gli occhi di tutti, ma esiste.
RINASCITA
“Rinascita” di Giovanni Morgese, tratta dal progetto “A Ferro e Fuoco”, del 2014 è una scultura tratta da una lamiera di ferro che ritrae una figura umana e all'interno di essa vi è un'altra figura in movimento che vuole lasciare il passato alla sue spalle e vuole andare verso qualcosa di migliore, di più bello e ovviamente rispecchia la mia volontà di rinascere, di smettermela di autosabotarmi... certo la figura principale è ingombrante e la nuova persona è piccolina in confronto ad essa però è importante essere determinati, centrati, muoversi e non rimanere fermi immobili.
GLORY, GLORY
“Glory, Glory” è una fotografia, scattata nel 2020, dal giovane fotografo statunitense Alex Stoddard. La maggior parte delle sue opere sono autoscatti di lui, a Fortstone, in Georgia, suo paese natio.
Tra le sue opere “Glory, Glory” mi ha colpito in maniera impressionante per l'estrema grazia ed eleganza, mi è parso quasi come se fosse battezzato dalle acque di questo torrente dietro casa sua.
Vivendo in un paese che si affaccia sul lago d'Iseo, questa foto richiama gli ambienti naturali che vivo quotidianamente dove di fronte ho il lago e alle spalle ho le montagne e questo scatto li riunisce entrambi e in mezzo a questo lago c'è lui, ossia io, illuminato dalla luce del sole, della speranza, della vita.
Mi ricorda pure quando faccio le lezioni di Mindfullness con la mia psicoterapeuta: spesso ci immaginiamo di essere immersi in laghi, mari, oceani e in quel momento mi pare di percepire l'acqua scorrere sulla mia pelle mentre in realtà sono sul tappettino yoga sul pavimento della mia camera.
Per concludere, ho portato queste tre opere per chiudere il cerchio di come ho affrontato Museo e venerdì, dopo oltre tre mesi e mezzo, che non mi rasavo più in maniera ossessiva e compulsiva i capelli, ed avevo in testa un caschetto stile Fantaghirò, sono andato dal parrucchiere a farmi un taglio di capelli nuovo(un rasato sfumatissimo per dovere di cronaca) per sancire definitivamente l'addio all'Edo passato ed ora sono pronto a riaprirmi alla vita, al futuro, all'amore, al lavoro e a tutto quello che verrà.
Utente
7 agosto, 2013
ALLEGORIA DELL'OLTREMONDO
Questa sala mi ha messo particolarmente in difficoltà. Non sapevo come approcciarmi, mi erano venute in mente idee che ho bocciato subito perché mi sembravano troppo banali (il bacio piuttosto che il tramonto ).
Ciò che mi piace nel momento in cui mi approccio alla visione di un'opera è provare a dare una mia interpretazione personale di ciò che vedo, abbinando un significato che possa dare una lettura diversa rispetto a quella canonica. Ed è stato proprio questo il punto di partenza per la composizione della mia mostra temporanea: scegliere tre opere famose, che in comune non hanno nulla, provando a creare un filo conduttore secondo una una mia lettura persone relativa ad un immaginario che mi ha sempre affascinato, quello dei regni ultraterreni.
INFERNO: Guernica/Pablo Picasso: il dipinto in questione è un capolavoro dell'arte e non ha bisogno di grosse presentazioni. Con quest'opera Picasso vuole dare una propria interpretazione del bombardamento che colpì la cittadina di Guernica durante la Guerra Civile spagnola. Un massacro generalizzato che colpisce tutti indistintamente, animali e uomini, che condividono lo stesso destino. Non conta il genere, non conta l'estrazione sociale: la sofferenza è sofferenza per tutti. Ho deciso di associare quest'opera all'inferno proprio perché la sofferenza generalizzata è ciò che più caratterizza questo luogo: non importa chi tu sia stato in vita, non importa quale sia il grado della tua colpa, sarai costretto a scontare la tua pena soffrendo per il resto dell'eternità, senza possibilità di redenzione. Non sappiamo se i personaggi raffigurati in Guernica fossero colpevoli di qualcosa: il bombardamento non ha avuto pietà di loro, li ha colpiti in maniera generalizzata. Allo stesso modo le schiere infernali puniscono tutte le anime senza pietà. A livello visivo questi visi così deformati, tipici della pittura di Picasso, mi hanno restituito un po' l'immagine di anime in pena; anche l'assenza di colore fa pensare ad un luogo in cui ormai tutto è spento, dove la speranza non è più una cosa alla quale ci si possa appigliare.
PURGATORIO: La Persistenza della Memoria/Salvador Dalì
Arriviamo ai famosi Orologi Molli di Dalì e ci spostiamo dall'Inferno al Purgatorio. Dall'affollatissima scena della Guernica ci spostiamo ad un paesaggio desolato, composto da pochi elementi, le cui uniche forme di vita sono una mosca, un gruppo di formiche e una creatura stesa a terra non ben definita. Ciò che attira maggiormente l'attenzione sono proprio gli orologi, quasi in scioglimento, che si distendono sulle poche superfici presenti nel dipinto: ogni orologio indica un'ora diversa e questo elemento, unito all'inconsistenza degli oggetti va a sottolineare come il tempo, per quanto misurabile, sia in realtà percepibile in maniera diversa da ognuno di noi, a seconda delle situazioni. Il tempo che passa (o che forse non passa) è ciò che in qualche modo mi fa pensare al Purgatorio: un luogo di attesa, di espiazione, dove si aspetta più o meno (a seconda del peso della propria colpa) l'elevazione nel regno celeste. Ogni anima non sa quanto effettivamente dovrà soggiornare in questa terra di mezzo, più accogliente dell'Inferno, più vivida (compare il colore, sebbene sia neutro, poco acceso) ma non ancora così accogliente. E che quella creatura, così distesa, così schiacciata dal peso dell'orologio non sia in realtà un anima distrutta da un attesa ingombrante. Ma è davvero così passato tanto tempo? O è la difficoltà di soggiornare in questo luogo di fatica a farlo percepire come tale?
PARADISO: Luce e Colore (La teoria di Goethe)/William Turner: ed eccoci finalmente giunti in Paradiso, il luogo che maggiormente si aspira in vita (ma anche nella morte): il luogo della completezza, della pace, della luce. E se di luce si parla, non si poteva tirar dentro William Turner, pittore ottocentesco che ha fatto dell'uso sapiente della luce e del colore il suo tratto distintivo. Il dipinto è come se fosse pervaso dalla luce, tant'è che il soggetto non è facilmente identificabile: si tratta tra l'altro proprio di un evento biblico, il Diluvio Universale. Già l'autore stesso, più di quanto avessero fatto gli autori precedenti con gli altri due regni, suggerisce un legame iniziale con il Paradiso grazie a ciò che ha deciso di rappresentare nel suo dipinto: ma è la presenza, quasi ingombrante, della luce che pervade tutto il dipinto a darci la sensazione di trovarci in un luogo celeste, lontani ormai dall'assenza cromatica dell'Inferno e dall'asetticitá del Purgatorio. E che cos'è questa sfera luminosa se non Dio stesso che col suo calore amorevole avvolge qualsiasi cosa, rendendo superflua la presenza di qualsiasi altra cosa attorno, perché appagati dal trovarci nella sua luce.
I tre dipinti, partendo dall'Inferno, procedono per gradi rispetto a due caratteristiche particolari: l'Inferno è il dipinto più affollato, più caotico: mano mano che si procede nei regni successivi i soggetti ritratti diminuiscono, arrivando al Paradiso dove la luce divina è l'unico soggetto che ci interessa vedere. Altra caratteristica riguarda il colore, anche questo presentatoci per gradi: dalla quasi assenza di colore in Guernica si passa ad una colorazione tenue nell'opera di Dalì fino all'esplosione finale del quadro di Turner.
Game Ranking Winner 2021/2022
Utente
30 novembre, 2019
Vie di fuga è una mostra che racchiude tre autoritratti di un'artista a cui tengo particolarmente e che mi ha accompagnato per un periodo della mia vita: Francesca Woodman
Le vie di fuga sono quelle che Francesca cerca quando la sua macchina fotografica inizia a scattare, per nascondersi, scappare, diventare un tutt'uno con quello che si trova attorno a lei, per provare ad entrare in un altro mondo.
Francesca nasce a Denver, Colorado, nel 1958.
Figlia d’arte si avvicinò prestissimo alla fotografia. Realizzò il suo primo autoritratto a tredici anni e sarà solo il primo di una lunghissima serie che la vedrà protagonista. I suoi genitori amavano tantissimo l'Italia, per cui fin da piccola vi trascorse lunghi periodi, soprattutto nella campagna toscana, dove i genitori vissero per un periodo in una fattoria. Non appena terminò gli studi d'arte si trasferì a Roma, poi a New York. Qui cominciò a tentare una carriera nel mondo della fotografia: mandò tanti portfolio in giro, senza ottenere però alcun tipo di attenzione. Fu in questo periodo che visse il suo primo periodo di depressione, non aveva davanti a sé alcuna prospettiva professionale ed era finita da poco la sua relazione con un ragazzo.
Nel 1980 tentò il suicidio per il prima volta, senza riuscirci. L’anno successivo purtroppo riuscì nel suo intento, volando da una finestra di un edificio dell’East Side. Aveva alle spalle l’ennesimo rifiuto per una borsa di studio e i continui rifiuti l'avevano prosciugata.
Il successo, paradossalmente, arrivò solo dopo la sua morte.
Nel corso della sua breve vita ha realizzato ben 10,000 negativi, anche se oggi risultano pubblicate ed esposte solo 120 fotografie, tutte di piccolo formato. Questo perché le sue immagini sono per lo spettatore un’esperienza intima, che necessita raccoglimento.
Space #2
1976
Come in tutte le sue opere, Francesca inserisce il suo corpo all'interno di luoghi chiusi, abbandonati, polverosi, con una decadenza quasi di tendenza. Space #2 non è un vero e proprio autoritratto, perché esplora le possibilità di rappresentazione invece di rivelare l'identità dell'artista. Qui accosta la sua epidermide a quella della materia circostante, ovvero la carta da parati, mettendo in atto una sorta di camouflage. Cerca di nascondere il suo corpo delicato per essere assorbita dalla parete, sottrarsi alla visibilità, eclissarsi nell'incognito, fuggendo dallo sguardo dello spettatore.
Self-deceit #1
1978
In Self-deceit #1 vediamo Francesca nuda che si relaziona con uno vecchio specchio appoggiato ad un muro incrostato.
Riguardo all'elemento dello specchio, si è abituati dall’iconografia del passato, soprattutto pittorica, a immagini di donne ritratte sedute, o in piedi, di fronte a una superficie riflettente, nell’atto di guardare la propria immagine in essa. Francesca realizza a Roma, nelle umide cantine di Palazzo Cenci, un progetto dal titolo Self-deceit, servendosi di questo specchio quadrangolare. Ci interagisce, sbucando a carponi da un corridoio o da un'altra stanza, si rispecchia incuriosita, forse incredula di quello specchio, che in realtà potrebbe essere un'entrata immaginaria per farla fuggire in un altro mondo.
Lo specchio è deformante per definizione: restituisce un’immagine inversa a quella del reale. Ma anche per questo è un mefistofelico tentatore: seduce perché soddisfa il nostro bisogno di conoscere. Ci consente di gettare lo sguardo sul nostro volto, quel volto che altrimenti ci sarebbe il più straniero di tutti, e soprattutto ci consente di affacciarci su un mondo diverso: il mondo capovolto.
House #3
1976
Con House #3 ci trasferiamo in una piccola stanza abbandonata situata nel cuore di Rodi, in Grecia. Pezzi di oggetti rotti rimangono ancora sparsi sul pavimento. Nella "scena del crimine", la macchina fotografica cattura Francesca mentre tiene in mano un pezzo di carta da parati e cerca di diventare tutt'uno con il muro di fondo.
L'artista in molte sue opere utilizza la la lunga esposizione, che si ottiene scattando con tempi che vanno al di sopra del decimo di secondo. Questo fa si che si creino degli effetti particolari su tutto ciò che è in movimento.
Il corpo di Francesca sembra trasformarsi in una figura spettrale, pronta a scomparire de tutto e a fuggire dall'occhio dell'osservatore.
In tutte e tre le fotografie la timida artista cerca una possibile via di fuga dall'occhio attento dell'obbiettivo (e quindi dello spettatore), come se il suo desiderio fosse scomparire per sempre da questo mondo, cosa che alla fine è riuscita a fare.
Utente
6 dicembre, 2019
Ci siamo! Conto alla rovescia e..
APERTO il voto per TUTTI
-PARTECIPANTI
TOP6 in privato come al solito.
Grazie.
-GUESTS STARS OSPITI & PUBBLICO
Nel post 316 trovate le 12 mostre temporanee e, a seguire, il contenuto scritto dell'audioguida che vi aiuterà nella visita.
Per voi invece la modalità di voto cambia, come avevo accennato nell'open post e nella presentazione dell'Ultima Sala.
Dovrete premiare 3 mostre temporanee preferite. Assegnerete la targa ATLETA TRIONFANTE molto semplicemente alla mostra che avete preferito. Lasciatevi guidare dal vostro gusto!
Assegnerete due secondi posti parimerito attribuendo la targa SANSONE a quella mostra che, appunto come Sansone con il gattone, è stata capace di piegare le vostre resistenze, vuoi per una tecnica insolita, per la vostra non predilezione per un particolare tipologia d'arte o semplicemente perché vi ha stupito con la sua "forza".
La terza targa, sempre dello stesso valore numerico della precedente, è invece la targa ANIMALIER, e ispirata dall'iconica fantasia ormai divenuta un classico nelle stampe di moda, pensata per quella mostra temporanea che vi ha emozionato, vuoi per il soggetto o lo stile o il concetto alla base che già conoscete e apprezzate. La mostra che sentite nelle vostre corde, rassicurante.
Anche per voi voto in privato (via MP/telegram) basta indicare
1) ATLETA ...
2) SANSONE ...
2) ANIMALIER ...
Termine ultimo per tutti Martedì 27 aprile alle ore 18.
Grazie e buona domenica, 😀.
---
LE TARGHE
Francesco Hayez, Atleta trionfante, 1813
Francesco Hayez, Sansone e il leone, 1842
Francesco Hayez, Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione dal Regno di Cipro, 1842
@Alby @Alabama Monroe @Iry8 @monechiapi @Waves of Music @Casadelvino @Emm @NotturnoManto @Krishoes @Alpha @edorf @alessandrino
Utente
6 dicembre, 2019
Le top6 e i 3 preferiti dal pubblico continuano ad arrivare. Il vostro voto può essere decisivo. Più o meno così
Per facilitare il voto a chi oggi è impegnato e avere qualche opinione in più prorogo la scadenza per il voto a domani mattina 28 aprile alle ore 11.
Domani, scopriremo il vincitore e le prime posizioni dell'Ultima Sala mentre aspetteremo un giorno, il 29, per scoprire tutti i risultati nel dettaglio delle Sale e soprattutto CHI ha vinto la seconda edizione del Museo.
Per la Sala Finale può votare anche il PUBBLICO come spiegato al post 331: nel post 316 troverete 12 mostre temporanee, dovrete indicarmi via MP/telegram la mostra preferita e le due seconde posizioni parimerito.
Utente
7 agosto, 2013
Utente
6 dicembre, 2019
RISULTATI SALA FINALE
Ben ritrovati al Museo.
Questa mattina scopriremo le migliori 4 mostre temporanee. Un applauso a voi quattro e prego accomodatevi al centro del Caffè del Museo.
@Casadelvino
@Iry8
@Emm
@Alabama Monroe
Sono molto felice che tutti voi 12 siate stati almeno una volta fra i preferiti: è un mio punto fermo che tutti possano far bene e sentirsi apprezzati. Per cui sono contento di questo. Io stesso spesso mi son chiesto cosa avrei presentato per una determinata Sala: fra estremo passato semisconosciuto e contemporaneo più spinto (quello criptico e spigoloso) forse sarei stato l'unico a non farcela, 😅. Per cui solo applausi per voi.
Ma basta chiacchiere inutili.. Veniamo alla medaglia d' 🥇 .
Ha convinto la maggioranza del voto esterno (STARS più PUBBLICO) finendo in moltissime preferenze e, sebbene per 1 solo punticino, strappa la vittoria e supera così la seconda posizione.
Sto parlando di te,
A WOMAN'S TEAR
IRY8
---
Domani ritroverò il portatile e scopriremo insieme CHI ha vinto la seconda edizione del programma.
Spalanchiamo le finestre del Museo per l'ultima volta
A domani allora. Grazie.
Utente
27 febbraio, 2020
Ma grazie a tuttiiiiiiiii, ci tenevo tanto a ottenere una vittoria Faccio i complimenti anche alle altre mostre in top4 (soprattutto a quella che stava per soffiarmi quest'ultima sala ), sono rientrate tutte nella mia classifica ma devo dire che ancora una volta ogni singola proposta era validissima ed è stato un vero peccato lasciarne alcune fuori!
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