La bruttezza di The Chef – scelgo e creo in cucina, è trascinante. È come quando decidi di fare una ricetta complessa, apri il libro e leggi gli ingredienti. Servirebbero i pomodorini freschi, ma non ce li hai. “Ho la passata, andrà bene quella”. Servirebbe il basilico fresco, ma non ce l’hai e usi quello liofilizzato. Servirebbe la pasta fresca, ma c’è solo un avanzo di una sottomarca del supermercato aperta da chissà quanto, andrà bene quella.
The Chef è questo. È stato chiesto di dare la risposta low cost a MasterChef, ma non ci sono gli ingredienti buoni. Ci sono giudici senza carisma e senza la conoscenza base dell’italiano (si parla di congiuntivi e capacità di completare frasi, non dell’eloquio di Bonolis), ci sono salette risicate dove non girerebbero neanche le televendite Eminflex, c’è un montaggio che deve far entrare in 45 minuti effettivi due diverse fasi di gara che coinvolgono un passaggio da 50 a 28 e da 28 a 14 concorrenti.
Ne esce una raffazzonata confusa e al limite della parodia, con i primi 30 minuti spesi a svendere per originale la “Prova dei 5 sensi”. Se non s’è mai vista altrove, vien da dire, un motivo ci sarà. Un grande chef è tale perché all’udito riconosce il rumore di un limone grattugiato da quello di un’arancia? O perché bendato, al tatto, discrimina l’orzo dal kamut? Prova che comunque non è vincolante, visto che i due coach (la Maci sembra al provino per una produzione più seria, Algherini penso faccia pure i sogni all’indicativo) scelgono chi passa anche su altri criteri (televisività, storia, personaggio).
I secondi 30 minuti, invece, sono 14 sfide uno contro uno, à la battle di The Voice. Non c’è spazio per vedere cucinare: nomi, sovrimpressioni (con grafiche che addirittura in certi momenti escono dallo schermo), giudici che fanno i cattivi e i minacciosi perché chi cucina non sta passando il Cif sul piano di lavoro. In alcuni punti non si capisce nemmeno chi passa e chi no, le frasi vengono tagliate a metà, con i soliti stereotipi da talent. Pianti, musiche che non c’entrano nulla col racconto, storie drammatiche.
Come quella di Onofrio, che viene preso ma deve rinunciare perché i capi minacciano di licenziarlo se dovesse mancare da lavoro per troppo tempo. Monopolizza la seconda parte di programma e si conclude col suo abbandono. Non c’è approfondimento, non c’è lieto fine, solo un racconto in italiano sconnesso sull’importanza di non mollare da parte del concorrente che ha appena mollato. Forse è una metafora del telespettatore.
Se si ha voglia di una ricetta e non si hanno gli ingredienti giusti o si rinuncia o la si va a mangiare al ristorante. Di sicuro non si spaccia un surgelato per piatto di alta cucina.