La cinquantanovesima edizione dell’Eurovision Song Contest s’è conclusa ieri sera con l’incoronazione della rappresentante austriaca Conchita Wurst, assoluto fenomeno del momento sia per chi ama la sua voce e la sua canzone, sia per chi non sa andare oltre l’impatto della sua immagine. L’Italia si schianta pesantemente contro il muro austriaco e un’altra ventina di muretti, chiudendo in 21esima posizione, il peggior risultato di sempre per il nostro Paese all’Eurovision, oltre che (naturalmente) un netto peggioramento dopo il rientro in competizione nel 2011.
Quella di ieri è stata l’ennesima dimostrazione della pesante scollatura tra la percezione italiana dell’evento annuale non sportivo più visto al mondo e quello che davvero è l’Eurovision. Nonostante sia un bene la presenza di cantanti seguitissimi come Mengoni (2013) ed Emma (2014), capaci di attrarre attorno all’Eurovision un pubblico sempre più ampio e giovane, questa operazione non sta andando di pari passo con la comprensione dell’aspetto culturale legato al contest.
Togliamoci subito questo dubbio: l’Eurovision non è la Coppa dei Campioni di Amici di Maria De Filippi. L’Italia è tornata in gara nel 2011 dopo 13 anni in cui la kermesse si è evoluta insieme all’Europa, diventando sì una competizione musicale, ma anche un momento di festa e, come è normale che sia, delicati equilibri dedicati alla spartizione dei voti. Scandalizzarsi dei blocchi nordici e sovietici nel 2014 è come sorprendersi alla tredicesima edizione che i finalisti di Amici siano chiari fin dalla prima puntata.
L’Eurovision c’era prima di noi e continuerebbe a esserci anche se decidessimo di non tornare in gara nel 2015. Come in economia e in politica dell’Italia si fa a meno se non è lei a far qualcosa per risultare indispensabile. Emma non ce l’ha fatta: la canzone (movimentata nell’anno delle ballate) era fuori tempo e fuori contesto. L’Europa non apprezza chi “ci prova troppo” o chi ricorda altri cantanti (ancora ricordiamo Amy Winehouse trending topic durante l’esibizione della Zilli). Inoltre, anche per la comprensibilissima emozione, Emma ieri sera ha cantato male. E in Europa sono abituati a farci caso senza che sia Gabry Ponte a guidare il giudizio.
Nulla di tragico: Emma resta una realtà della musica italiana e continuerà – suo malgrado – ad avere quei fan che ieri sera (come dopo la vittoria di Vecchioni a Sanremo) hanno dato il peggio di loro sui social network. E giù insulti a Conchita Wurst con appellativi omofobi e transfobici, e giù sfottò alla competizione e piedi puntati perché la loro beniamina non ha vinto l’ennesima coppa. Il provincialismo all’italiana è tutto qui: non amanti dello spettacolo, ma fanatici con la bandana bianca o blu che attendono solo il giro di carte per urlare o disperarsi.
In fondo non vincere l’Eurovision nel Paese che a un anno dall’Expo riesce a far indagare tutti i suoi rappresentanti vale solo un grande sospiro di sollievo. Chi ama davvero l’Eurovision non potrebbe accettare di vederlo presentato da conduttori capaci solo di dire The cat is on the table mentre Corriere.it ci aggiorna in tempo reale del giro di mazzette e appalti che ha portato alla costruzione dell’arena.
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bravissimo alex, ottimo articolo
Applausi a scena aperta.
Io, da quel poco che ho letto tra i commenti provenienti dall’estero su Twitter, credo che Emma abbia lasciato il pubblico molto indifferente. Alcuni l’han criticata, altri ne sono rimasti ipnotizzati, ma nel complesso non ha fatto breccia. Forse perché ha messo insieme così tanti elementi da impedire alla gente di capire cosa volesse trasmettere…
“L’Eurovision c’era prima di noi e continuerebbe a esserci anche se decidessimo di non tornare in gara nel 2015.”
PAROLE SANTE.