Intervista per Rockol

Perché questo album?
È stato un processo lungo. Per anni ho cercato di non farlo questo disco, poi a un certo punto mi sono detto: tocca anche a me. Come produttore sei sempre al servizio degli altri, ho sempre fatto cose in cui credevo, ma mai al 100% come le volevo io. Ed è normale quando lavori con e per degli artisti. Sai a volte puoi proporre, ma alcuni si possono terrorizzare, se lavori a un tuo progetto e sei il padrone di casa, questo non può accadere.

Già dal titolo si intuisce che porti gli artisti “a derapare”, a uscire dalla pista, a “sbandare”.
La AE86 Sprinter Trueno è una vecchia Toyota in produzione tra l’83 e l’86 e proprio questa piccola auto a trazione posteriore è diventata il simbolo di quello che oggi è noto come drifting, disciplina che consiste nel guidare sbandando in modo controllato. L’idea era quella di fare musica che “sbandasse” piuttosto che seguire in modo ordinario le richieste e le aspettative, anche quelle del mercato musicale. Mi sono preso il tempo necessario per sviluppare l’universo musicale che avevo in mente e sul quale ho fantasticato per tanto, uno spazio riempito da tutte le cose che mi hanno influenzato artisticamente e non solo.

Tu come e quando hai derapato?
Ho dovuto trovare “un nuovo modo” in un “vecchio modo”: gli strumenti reali sono stati la mia guida in questo processo. Ho capito che dovevo staccarmi dal pc. Ho suonato la quasi totalità della musica e il 90% del sound di questo disco proviene da sintetizzatori analogici, batterie elettroniche, sampling, resampling, distorsori ed effetti esterni. Una volta chiaro quale fosse l’impronta sonora del progetto l'ho adattata in varie forme pensando alle persone che avrei coinvolto. C’è stato un lavoro di pianificazione lungo e importante.

Qualche artista si è “spaventato”?
Nessuno, in realtà. Si sono sentiti liberi di fare qualche cosa di nuovo e questo ha portato molti a brillare in modo diverso. Non volevo che fossero gli ospiti a decidere la forma del mio disco quindi ho provato a forzare un po' la mano sottoponendo a ogni artista una singola idea musicale pensata e realizzata su misura per lei o lui, questo processo è stato così per tutti tranne che per Gemitaiz e Coez che compaiono in più di una traccia. Non ho mai avuto un piano B per nessuno e, fortunatamente, non è mai stato necessario.

Come hai lavorato?
In studio con gli artisti. Non ho mai mandato strumentali aspettando che mi tornassero indietro con la strofa come spesso accade.

C’è un’alta presenza di donne nel progetto. Tra le canzoni più sorprendenti c’è “Due lune” di Ginevra e Laila Al Habash e “Salto nel buio” di Annalisa con Coez.
Nel primo caso Ginevra e Laila non erano subito convintissime di voler cantare insieme perché hanno due timbri molto differenti. Ma poi in studio, al lavoro, si sono convinte e le due voci insieme funzionavano molto bene, il ritornello viene cantato all’unisono. Questo perché l’idea è sempre stata quella di fare canzoni, non accrocchi. Anche il pezzo Annalisa-Coez ha un ritornello cantato a due voci che si completano bene e lo ha ammesso lo stesso Coez, che è un grande perfezionista. L’Annalisa di questo brano è molto diversa da quella che abbiamo visto in questo ultimo anno e mezzo, per questo è interessante. La presenza di tante donne mi ha aiutato nella lavorazione, perché sono sempre ben disposte a sperimentare.

Ammettiamolo senza problemi: in questi anni molti producer album pubblicati, in Italia, non sono stati qualitativamente interessanti, tranne alcuni casi.
Molti producer album usciti in questi anni non erano producer album, ma raccolte di beat in cui degli artisti hanno fatto rap più o meno buono, o altro. A parte ‘Obe” di Mace e ‘Mattoni’ di Night Skinny, per me diversi progetti non avevano un pensiero e uno sviluppo sonoro preciso. Il risultato, spesso, è stato un Frankenstein. Io volevo realizzare un disco ‘mio’ con degli ospiti, un disco solido, non un assemblamento.

Musicalmente come lo definiresti?
Ascolto tantissima musica, mi piace molto il pop straniero che ha picchi di stranezza a cui noi in Italia siamo poco abituati. Io mi sento vicino a quella visione, per certi aspetti potremmo definirlo un disco pop, nell’accezione positiva del termine, internazionale. Per me anche i Pink Floyd sono stati pop, per intenderci, perché sono arrivati alle persone sperimentando. Nel disco ci sono tutti i coming out, le mie referenze storiche: dalle colonne sonore al Wu Tang. In ‘Trueno’ con Salmo ci sono tutti i miei punti di riferimento, dal rap al funk, è quasi un pezzo-dichiarazione di chi sono. E si arriva fino al sound su cui ballavano i breakers e ai sample trasformati. È un album che custodisce un mondo.

Molti brani hanno delle code strumentali, che sembrano delle “firme”.
Sono dei momenti tutti miei che arrivano alla fine di un’evoluzione sonora, a volte sono momenti di rilassamento, di quiete, che fanno intuire dove sarebbe potuto virare il pezzo, in altri casi ancora accompagnano l’ascoltatore al prossimo brano.

Te lo immagini portato live?
Sarebbe bellissimo e sì, mi piacerebbe fare una data speciale con un set e degli ospiti. Con un palco con più elementi, non potrei essere solo, e strumenti. È un carrozzone molto impegnativo che, però, sarebbe importante per raccontare il suono e l’album. Se dovessi riuscire nell’impresa di organizzarlo, lo verrete senz'altro a sapere (sorride, ndr). 

La citazione a Splende