Utente
6 dicembre, 2019
Ci siamo, i primi tre, rullo di tamburi, please
Podio del MuseoRh
Un' ora per trovare Blake senza scarpe per essere in linea con gli altri due del podio, ma non l'ho trovata.. Rimedio con questo ritratto (le sopracciglia!!!).
Primi ma con brutte foto (vendico così le altre posizioni.... ihihihih).
Scherzo, ovviamente
A più tardi con le indicazioni per la prossima Sala
Utente
6 dicembre, 2019
waves of music ha detto
A fine gioco avremo il dettaglio delle votazioni di tutte le sale?
Sì, quando finiremo ve li mostrerò. Vi ricordo che al termine sarete voi stessi a comunicare sia la posizione in classifica (ve lo dirò in privato prima) che l'identità (se non si sarà già capito) e potrete spiegare le scelte per le varie Sale e comunicare quello che so PER CERTO state tutti trattendo dentro..
Utente
7 ottobre, 2018
mrnace ha detto
Sì, quando finiremo ve li mostrerò. Vi ricordo che al termine sarete voi stessi a comunicare sia la posizione in classifica (ve lo dirò in privato prima) che l'identità (se non si sarà già capito) e potrete spiegare le scelte per le varie Sale e comunicare quello che so PER CERTO state tutti trattendo dentro..
Cioè la voglia di iniziare una catfight quando non ti votano l'opera?
Comunque per quanto mi riguarda un solo artista è un po' troppo alto in classifica, relativamente però alle sole opere esposte.
Moderatore Junior
7 agosto, 2013
Io non ho capito molto degli abbinamenti e non mi sto sforzando manco. Solo uno sono quasi certo di averlo intuito. Su un altro ho delle vaghissime idee.
Conoscendomi, alla fine non avrò capito una in realtà.
Comunque sono abbastanza d'accordo con la classifica, anche se finora uno dei nomi in alto non mi ha entusiasmato molto.
Utente
6 dicembre, 2019
Ci siamo.
Il percorso espositivo all'interno del nostro MuseoRh deve essere accattivante, unico, in grado di non far annoiare il visitatore (il nostro pubblico di Rh) e proprio per questo la prossima Sala conterrà diverse forme espressive, le migliori, quelle che sceglierete fra le opere dei vostri artisti.
Lasciatevi ispirare dalla Sala spoglia: intreccia il passato con le volte quattrocentesche e il contemporaneo con il mobile modulare in legno.
Si aggiungeranno, a seconda delle vostre scelte, i vari supporti:
Pannelli murali per dipinti di grandi dimensioni, fotografie
Basi e teche di grandi dimensioni per sculture
Teche di vetro illuminate per opere di piccole dimensioni come incisioni, schizzi, miniature
Schermi retroilluminati per performance visive
Pronti? La prossima Sala sarà la Sala Sorprendente.
Come sorprendere?
. Con una forma espressiva diversa da quella fin ora proposta
. Con un soggetto dipinto/fotografato davvero sbalorditivo
. Con aneddoti o curiosità sull'opera, sulle versioni meno conosciute, schizzi spesso legati a retroscena incredibili
. Perchè no, con un ragionamento capace di suscitare stupore
Cosa dovete fare?
Trovare l'opera giusta e..
Considerato l'aspetto principale della Sala come posso fare a introdurvi senza anticipare il contenuto? Semplice, non scrivendo niente. Avete capito bene, prima dell'opera ci sarà solo il titolo della stessa e quando è stata fatta. Attenzione però non significa che si guarderà l'opera così senza nessuna presentazione ma..
La presentazione la dovrete fare voi!
Nella presentazione scritta che accompagna l'opera siete liberi di scrivere, di sottolineare qualsiasi cosa: il vostro senso di sorpresa, soggetto/significato contenuto nell'opera, contestualizzazione storico/geografica, note dell'artista. MA soprattutto cosa "dice" l'opera, cosa vi suscita guardandola, che sensazioni trasmette. La direzione del MuseoRh vuole una didascalia, corta o lunga non importa, personale! Sotto trovate l'espositore nel quale verranno messe tutte le vostre descrizioni.
Ricapitolando, avete tempo fino alle 23.00 di mercoledì 01 aprile per comunicare l'opera e la vostra presentazione. Buon lavoro
@Casadelvino @mrnothing @Emm @Alby @monechiapi @NotturnoManto @Waves of Music @amers
Utente
6 dicembre, 2019
Edvard Munch, Urnen, 1896
Per tentare di fare brillare Munch in questa sala delle Sorprese, ho deciso di scendere in campo con The Urn: non un dipinto, come le opere precedenti, ma una litografia. In realtà, per qualche ora mi ero persuaso di condividere questo lavoro nella precedente sala sensoriale (avevo già scelto la mefistofelica ‘Seven Devils’ dei Florence + The Machine come seducente accompagnamento musicale), ma alla fine ho temuto che, priva di una qualche annotazione, non sarebbe riuscita a emergere come spero potrebbe. Come accennavo all’inizio, ci troviamo dinnanzi a una litografia, e non è scontato che tutti siano a conoscenza del fatto che l’artista norvegese si sia dedicato anche a questa tecnica, che consiste nel tracciare, con un materiale grasso, un disegno su una pietra e trattare quest’ultima con sostanze chimiche in modo che sia poi possibile passare l’inchiostro sulle soli parti disegnate della pietra e trasferire infine il disegno dalla pietra alla carta tramite la pressione di una pressa litografica.
Quando mi sono trovato a tu per tu con quest’opera (in maniera del tutto casuale su internet, essendo un lavoro non riportato in nessuno dei libri che possiedo su Munch) sono stato da quest’ultima sedotto, turbato e credo anche ingannato, confuso. Mi era infatti parso di trovarmi davanti a una figura malefica, a una strega rappresentata sul punto di scagliare il proprio maleficio stendendo quelle braccia che la visionarietà dell’artista quasi trasfigura in tentacoli, in protuberanze oscene e perverse. Eppure sentivo che qualcosa non quadrasse, che non tutte le linee tracciate collimassero a giustificare questa sensazione, che proprio ‘in your face’ fosse presente un dettaglio ‘stonato’… ecco, la faccia, il volto! O meglio, la sua espressione! Pensateci bene. In questo volto (che, metamorficamente, può essere identificato con la luna, tanto è pallido), a una visione più attenta, personalmente non ravviso un’aurea malefica, diabolica, leggendovi invece incertezza, un certo timore. Improvvisamente protagonista negativo della scena diventa proprio quell’urna, oscura, tetra, lugubre, ai cui piedi versano le sue vittime, corpi forse ancora in vita ma agonizzanti, torturati, tacitamente urlanti, nei quali volti è possibile riscontrare una caratteristica dell’arte di Munch, l’influenza delle mummie Maya nella loro resa. Ma focalizziamoci sul corpo sulla sinistra: la testa nemmeno si vede, lasciando l’orribile impressione che si tratti di un cadavere decapitato: eppure ciò che resta del corpo sembra gridare, gemere, con quei capezzoli che mi sembrano occhi, con l’ombelico che si fa una bocca implorante. In tutto questo ci troviamo a empatizzare con l’altra protagonista, la donna nel cui animo convivono paura e risolutezza, pronta forse anche a morire nel tentativo di spezzare la maledizione dell’urna.
Max Rive, The Ghost Cave
Sono partito in questo viaggio con Max Rive per rendere onore alla fotografia paesaggistica, in quanto è il suo pane e l'arte in cui è professionista. Fino adesso sono rimasto nella casa che ci accomuna, le Dolomiti, prima con i colori dei boschi delle Odle, e poi con l'alba nebbiosa di un autunno sull'alpe di Siusi, accompagnata dall'angosciante cantico dei This Mortal Coil.
Stupire ora magari è difficile, Max non fotografa oggetti o persone, ma non impossibile. Per questo ho scelto questa foto, proprio perchè è il sentimento di stupore che mi inebria ammirandola.
Fino adesso abbiamo visto le montagne, le Dolomiti, ora ci spostiamo nella gelida terra islandese. La osserviamo da una caverna nevosa, attraversata da un ruscello.
Abbiamo conosciuto il giorno e l'alba di Max, ora guardiamo come il suo obbiettivo si destreggia nella notte.
Ciò che più mi incanta e sbalordisce di questo scatto è il soggetto. Il vero soggetto che per me è proprio la natura, ma a differenza delle scorse volte, è catturata con un approccio più sensazionalistico, riuscendo ad esaltare l'aspetto scientifico di essa, con le sue leggi e il suo continuo mutamento. In questa fotografia abbiamo la capacità di catturare dei fenomeni naturali di incredibile bellezza, le basi della chimica, della fisica, della scienza. Perchè cosa sa sbalordire e scoprire nuovi orizzonti più della scienza?
Abbiamo la fisica: l'aurora boreale con i suoi colori, che ha un fascino lapalissiano, ma così imprevedibile. Essa non è altro che un fenomeno ottico, dovuto all'atmosfera, e all'eccitazione degli atomi che emettono luce di diverse lunghezze d'onda. Io non ho mai avuto la fortuna di poterla osservare, ma questo ventaglio di colori accessi mi illumina anche attraverso uno schermo virtuale, grazie a chi l'ha saputa cogliere nel pieno del suo fascino.
Abbiamo la chimica: la caverna nevosa, che pian piano si scioglie. La neve e i ghiacci creano degli scoli di acqua, liquida, che fluiscono nel ruscello insieme al resto. Abbiamo l'acqua in tutte le sue fasi: solida, liquida, gassosa. La tridimensionalità della foto, la profondità di questi differenti fiumi verticali, ci dà l'idea di essere all'interno della foto.
Abbiamo la geometria: le diverse forme, più o meno regolari, create dallo strato nevoso che si scioglie. I fori attraverso i quali si osserva il cielo e l'aurora, i tagli netti e sinuosi dello sfondo.
L'incanto di poter osservare, ma non totalmente, che ci permette di aumentare il desiderio. La metafora dell'oltre, di voler scavare per vedere ancora di più la bellezza: prima c'è la corteccia nevosa, successivamente c'è la morbidezza dell'aurora, e se si scava ulteriormente, si nota il cielo stellato. Che non è solo un processo concreto, ma anche un interessante meccanismo metaforico, non si può mai sapere cosa si nasconde sotto la superficie. Guardo questa foto con gli occhi lucidi, per le meraviglie della natura e della scienza. Così come la fotografia, che non è solo arte, ma anche tecnica.
René Magritte, Collective invention, 1934
Parto dal presupposto che per questa sala rispetto al mio Magritte vedo più lanciati altri artisti, senz'altro più avvezzi all'arte dedita allo choc più che al piacere visivo. In questo caso mi sarebbero senz'altro corsi in aiuto i due artisti che alla fine ho scartato in favore di Margritte, ovvero Marina Abramovic ed Andy Warhol. Ma tant'è, proverò ugualmente a persuadervi nell'apprezzare la peculiarità dell'opera che ho scelto.
Questo dipinto è surrealismo allo stato puro. Questo movimento artistico basava le sue produzioni sull'emersione dell'inconscio nei dipinti, del sogno nel reale (andavano a braccetto con le teorie di Freud, che però non li vedeva molto di buon occhio). Magritte mi piace perché, e qua mi collego all'esordio della mia presentazione, non è quasi mai sensazionalistico: le sue opere a me trasmettono eleganza e calma più che l'inquietudine propria di molti altri suoi colleghi, ed ecco perché ero inizialmente in difficoltà con la ricerca del dipinto...ma alla fine ho trovato ciò che cercavo.
Ed ecco allora Magritte alle prese con questo essere promiscuo, donna dalla vita in giù e pesce dalla vita in su. Una sirenetta al contrario, praticamente, e qua si che il disturbo arriva. Facile romanticizzare e idealizzare la bella sirena come una bellissima ragazza sensuale con una pinna caudale al posto delle gambe, molto più difficile apprezzare una creatura così 'capovolta'. Difficile apprezzarla esteticamente, certo, ma è facile leggerci anche un riferimento all'oggettivazione del corpo femminile (il classico 'basta che respiri...'). Il soggetto è disturbante, non è collocabile né a terra né in mare, né come essere umano né come animale, e l'umanità da sempre fatica ad apprezzare gli ibridi. Credo che questo quadro sia un buon compromesso tra turbamento, riflessioni etiche e piacevolezza (trovo sempre piacevole osservare un Magritte, è questa la peculiarità che me l'ha fatto scegliere).
Banksy, Crime Watch UK has ruined the countryside for all of us, 2003
Attenzione. Cosa succede? La polizia ha chiuso temporaneamente la Sala Sorprendente del MuseoRh! La gente osserva incuriosita le animate discussioni della sicurezza del museo con alcuni agenti. I nastri “crime scene - do not cross” tengono a distanza il pubblico, impedendo ai più ficcanaso di carpire qualche parola, mentre buona parte dei visitatori si diverte a prendere foto di quella che potrebbe sembrare una performance artistica. Eppure no, la questione parrebbe seria. Avranno rubato qualcosa? Un quadro e la sua placchetta didascalica giacciono a terra. Un incidente? Non si riesce a leggere l’indicazione del quadro. Eppure è strano, da lontano si percepiscono alcuni elementi del quadro, sembrerebbe un paesaggio, ma qualcosa non torna…
Intanto, il direttore del museo, Mrnace, si sta recando nel locale della sicurezza con il tenente della dell’ACD (l’Art Crime Department). Vuole guardare le registrazioni delle telecamere di sorveglianza. Questa sezione del museo è aperta da poco tempo, non bisognerà andare troppo indietro nel tempo. E in effetti, dopo qualche ora di registrazioni e una decina di pause caffè, si arriva al momento del fattaccio. Le immagini parlano chiaro. Mrnace è sconvolto che un fatto del genere sia potuto succedere in pieno mercoledì pomeriggio. Sotto il suo naso! Chi si nasconde veramente sotto quel cappello da pescatore? E perché appende quadri?!
Ma diamo un’occhiata ad alcuni fotogrammi che qualche giorno più tardi saranno rivenduti dai due addetti al guardaroba, Kassa e Xello, alla peggior stampa scandalistica del paese, poiché sottopagati dall’illustre direttore di MuseoRh.
Le immagini catturate dalle telecamere purtroppo non saranno sufficienti per rivelare l’identità dell’artista al mondo. Ma questo strano signore, con finta barba e finto naso, avrà comunque avuto il merito di stupire e lasciarci un’opera quantomeno... originale.
Questo del 17 ottobre 2003 è uno dei primi dei tanti “scherzi” di Banksy al mondo dell’arte. Dall’inizio degli anni 2000, queste incursioni artistiche hanno colpito i più grandi e riconosciuti musei del mondo: MoMA, British Museum, Louvre, Natural History Museum...
L’opera sopra rappresentata è stata introdotta alla Tate Britain e appesa alla parete a fianco di un paesaggio bucolico del XIX secolo. La sua esposizione sarebbe potuta durare a lungo, ma alla fine, come spesso accade con le opere degli Street Artists, è durata poche ore. La colla con cui il quadro era tenuto alla parete ha ceduto, l’opera si è schiantata a terra e si è rivelata al mondo. È stata in seguito riposta tra gli oggetti smarriti.
Il quadro, intitolato Crime Watch UK has ruined the countryside for all of us, è un dipinto a olio trovato in un mercatino delle pulci dallo stesso artista, il quale ha modificato il paesaggio rappresentato aggiungendoci del nastro blu e bianco della polizia britannica. Secondo Banksy, il quadro modificato sarebbe una rappresentazione più fedele di come gli inglesi vedano oggigiorno veramente il paesaggio in cui vivono: con paranoia e paura di crimini violenti.
L’artista affermò che il processo per avere un proprio quadro esposto in un museo è troppo lungo e noioso... è molto più divertente andare e appenderlo da soli. Inoltre “La gente si chiede spesso se i graffiti sono arte. Be’, dev’essere così, sono stati appesi alla Tate”. Con questa frase e con il suo gesto, Banksy solletica il pubblico sui temi a lui più cari: l’élitismo nel mondo dell’arte, il potere dei (pochi) forti di decidere sui (tanti) deboli, la forza della Street Art e l’eccessiva sorveglianza generalizzata che a volte, come volevasi dimostrare, non funziona.
Utente
6 dicembre, 2019
Alex Prager, Despair, 2010
Alex Prager ha soltanto 31 anni quando espone la sua mostra The Big Valley, immagini ambientate in un passato non troppo lontano che ritraggono giovani donne bellissime e affascinanti, benestanti ma con una profonda inquietudine. Cosa è accaduto a queste donne prima di questi scatti? Cosa accadrà dopo? È ciò che le chiedono molti dei visitatori della mostra.
È così che nasce l’idea di Despair. Si tratta del primo di una serie di film che consacreranno Alex Prager non soltanto come brillante fotografa, ma anche come raffinata regista. Il suo concetto di film, per il momento, è ancora fortemente legato al mondo della fotografia. Lei stessa definirà Despair non un vero e proprio film, ma fotografie che si muovono un po’.
Anche in questa disciplina, la donna resta come sempre centrale e ai personaggi femminili della regista Alex Prager daranno il volto attrici del calibro di Elizabeth Banks, Cate Blanchett, Glenn Close, Kristen Dunst e Jessica Chastain. Protagonista di Despair è l’incantevole Bryce Dallas Howard, attrice figlia dell’attore e regista Ron Howard, il Richie di Happy Days.
Non soltanto l’universo femminile, ma molti altri elementi e temi ricorrenti dello stile diThe Big Valley e dell’intera opera di Alex Prager sono presenti in Despair: la folla, l’eredità culturale della società degli anni ’50 e ’60, il cielo, gli uccelli, il vuoto, il suicidio, la libertà.
Despair, come sostantivo, è il corrispettivo di disperazione, angoscia. Come verbo può tradursi in disperarsi, nel senso letterale di perdere ogni speranza, vedersi persi.
Siamo a metà del secolo scorso, in pieno boom economico, in una ricca cittadina statunitense che rispecchia una società ancora fortemente maschilista. Alle donne, per essere felici, basta potersi sistemare e trovare un marito che possa dar loro una famiglia, una bella casa, degli elettrodomestici nuovi e dei bei vestiti. Una vita apparentemente perfetta agli occhi di chi non può sapere cosa succede dentro le mura di casa. La protagonista della nostra storia è una di queste donne, una donna bellissima che, secondo la società dell’epoca, ha tutto per potersi ritenere felice. Eppure c’è qualcosa che la fa sentire insoddisfatta, oppressa, irrealizzata. Qualcosa che le impedisce di essere se stessa.
Una brutta notizia, forse un aiuto che non arriverà mai. Nessuno può aiutarla, nessuno può capirla. Una lacrima le riga il viso, mentre lascia andare la cornetta per confondersi tra la folla.
Lì in mezzo è la più luminosa, ma sembra quasi trasparente. Nessuno riesce a scorgere il dolore che c’è dietro quella luce. Nessuno. Quel dolore, quel cuore così dissonante con tutto ciò che le sta intorno, sembra quasi essere un intralcio, qualcosa che è meglio evitare, che è meglio lasciarsi alle spalle senza girarsi a guardare. Chiunque incontri sulla tua strada sta combattendo la sua personale battaglia, una battaglia di cui non sai niente e che spesso affronta da solo.
In un vortice di disperazione e di indifferenza, all’improvviso appare una dolce via d’uscita. Drammatica, sì, ma che risveglia uno slancio di libertà. Una boccata d’aria fresca. Un salto nel vuoto e poi un lento sprofondare, tuttavia più rapido della vita. Il seducente pensiero di chiamarsi fuori dall’inferno, di farlo alle sue regole, infrangendo le regole che hanno scritto gli altri. L’idea che presto di lei non rimarrà più niente.
E se quel salto nel vuoto non fosse la fine, ma soltanto l’inizio? Se non fosse altro che il coraggio di prendere in mano la nostra vita? Quel coraggio che troppo spesso ci manca. Allora quella disperazione sarebbe qualcosa di diverso. Non l'abisso, ma la corrente necessaria a darci la spinta per risalire a galla. Forse bisogna sentirsi davvero persi per potersi ritrovare e per poter ricominciare.
Because life begins on the other side of despair
John Everett Millais, Bubbles, 1886
C'era una volta un bambino che giocava da solo.
Un libro di fiabe con questo incipit, se avesse i pop up vedrebbe il formarsi di un castello di carta al cui interno un bimbetto seduto in terra su un tappeto fa le costruzioni.
Un libro col sonoro, all'apertura della pagina vedrebbe partire "Lettera a Pinocchio" di Johnny Dorelli, la ninna nanna che gli cantava il papà la sera.
Le pareti di carta del castello sono l'amore spassionato dei genitori, che han messo al mondo un solo figlio tanto atteso, sono la sua timidezza, che non lo fa aprire con chiunque, dicendo "vuoi giocare con me?", sono le ringhiere che delimitano il terrazzo dove fa le bolle e le guarda volare, salvo rientrare in casa se qualcuno si affaccia o esce nei terrazzi circostanti, perché si vergogna a rispondere se gli dicono ciao.
Anche Millais raffigura il suo bambino che gioca da solo, dipingendo il nipote alle prese con un catino e una pipa per fare le bolle di sapone, dove spicca lo sguardo affascinato e assorto che insegue la sfera eterea che si innalza.
Immagine così suggestiva che fu il motore di un'idea dirompente.
Nel 1886 infatti l'imprenditore A. Pears, proprietario dell'azienda Pears Soap, acquistò i diritti in esclusiva del dipinto di Millais, ovviamente con il placet dell'artista, per utilizzarlo in una campagna pubblicitaria che sponsorizzasse il suo sapone.
Per la prima volta l'arte entrava a stretto contatto con la quotidianità, non era più a beneficio di pochi eletti che la andavano cercando ma entrava prepotentemente a contatto con il collettivo.
Sebbene bersaglio di critiche, Millais si distinse nel mondo Vittoriano, quasi stereotipatamente legato a doppio filo alla tradizione e al conservatorismo, con un'azione originale e moderna che diede il là ad un nuovo modo di intendere l'arte.
Se potessimo fare un salto temporale di settant'anni tondi, vedremmo la foto in bianco e nero di una nuova potenziale modella di Millais, una bambina che ride e fa la pubblicità dentro le cornici ad un noto studio fotografico della città. Mia madre.
...e trent'anni dopo, precisamente nel centenario di quella campagna pubblicitaria del sapone, il primo piano di un neonato dagli occhi sgranati nella vetrina dello stesso studio. Il sottoscritto.
Non possiamo vederli, ma possiamo certificare che nella vita nulla é per caso, e tutto prima o poi torna come la tessera che va a comporre il puzzle della nostra vita.
William Blake, I want! I want!, 1793
“L'immaginazione non è uno stato mentale: è l'esistenza umana stessa”
Questo diceva Blake e queste parole mi ronzano intorno mentre guardo I want! I want!. Penso al desiderio umano di raggiungere le cose anche impossibili, magari fisicamente non è possibile ma con l'immaginazione possiamo tutto. E i sognatori sono come quella piccola figura che pensa di raggiunge la Luna con una scala. Andare oltre non solo per immaginazione ma per necessità.
Voglio! Voglio! Come desiderio totalitario. Blake attraverso una piccola opera ci parla di uno dei principali aspetti dell'animo umano. E allora Vogliamo anche noi raggiungere quella Luna, quell'oltre che temiamo ma che bramiamo.
Jacek Yerka, Palestine, 1979
Siamo nel 1979. Yerka non è ancora lontanamente il pittore di fama internazionale che è oggi, ma inizia già a muovere i primi passi nel mondo dell’arte. Tuttavia, i suoi esordi non sono all’insegna della pittura, ma della grafica pubblicitaria, che aveva precedentemente studiato. I primi lavori sono dei poster pubblicitari per sponsorizzare prodotti quali caramelle per bambini o preparati per zuppe. Già in questi cartelloni si scorgono i tratti caratteristici dell’arte di Yerka: i colori vividi, i richiami surrealisti, la presenza dirompente della natura, i richiami favolistici...
In quegli anni, però, oltre a questi, nelle strade della Polonia compare un altro poster molto diverso da quelli precedenti. Sorpresa!
Nessuno spot a prodotti alimentari che promettono viaggi nel Paese delle Meraviglie, criptici e colorati, bensì un messaggio forte, sintetico, palese, che ti arriva dritto agli occhi e alla mente.
PALESTINE! è la scritta che campeggia nel basso del poster. Più in alto un disegno molto semplice, realistico, in bianco e nero; non i dipinti complessi e ricchi di dettagli, surreali e coloratissimi che abbiamo conosciuto.
Se “il medium è il messaggio” qui il messaggio arriva forte e chiaro, non c’è bisogno di scovarlo tra le righe con un’interpretazione personale, che spesso cambia da soggetto a soggetto, come per le sue altre opere.
Il pugno chiuso, simbolo di ribellione, di resistenza al potere; la mano intrappolata sotto una “rete” a forma di stella di David. Non servono grossi doti interpretative per comprendere il messaggio che vuole lanciare, reso ulteriormente esplicito dallo slogan, anch’esso profondamente lapalissiano.
La guerra dello Yom Kippur è alle ultime battute e sono appena stati firmati gli Accordi di Camp David, eppure la questione palestinese è più viva che mai nell’opinione pubblica, che rimane divisa tra due fazioni.
Con questo poster Yerka esprime chiaramente la sua posizione, ma il suo obiettivo principale è quello di far aprire gli occhi alla massa, di smuovere gli animi di coloro che si soffermano ad osservare quest’opera. Se ne frega di lanciare un messaggio scomodo e senza l’appalto o il progetto di nessuno espone la sua opinione davanti a tutti.
Ciò che colpisce del disegno è un realismo che non verrà più sperimentato in modo così vivido dall’artista: si notano tutte le rughe della mano, i segni nella carne lasciati dalle corde, i tendini, le venature. Nulla a che vedere con tutta la sua produzione futura.
In sintesi, con Yerka è difficile stupire, perché ogni sua opera in fondo è una sorpresa per lo spettatore, per via dei soggetti inconsueti e i significati nascosti. Qua a sorprendere è proprio l’opposto: il realismo, la sottrazione, l’assenza di colore, non vi è alcun sottinteso. Tutto è esplicito, non c’è nulla di magico o futuristico, c’è solo la realtà nella sua cruda verità. Insomma, tutto ciò che non ci aspetteremmo dal pittore polacco.
Sorprende, ovviamente, anche il messaggio forte, che arriva lampante, come se fosse urlato allo spettatore. Una sola parola che però risuona a volume altissimo.
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