Utente
7 agosto, 2013
The Cranberries & Scio16
Utente
7 agosto, 2013
Votazioni
The Cranberries 10
Elisa 5
Utente
7 agosto, 2013
Ringrazio semota per essersi buttata in questa esperienza so che si tratta di un gioco impegnativo eppure sei riuscita a portarlo avanti in maniera egregia, costruendo un fantastico percorso di crescita che ha dato modo di farti apprezzare da tutti! Spero tu ti sia trovata bene, che sia stata un'esperienza positiva e che ti sia sentita sempre a tuo agio nell'esporti nella maniera in cui tu ritenevi più opportuna. Da parte mia ti dico che mi è piaciuto tanto il tuo modo di approcciarti al gioco, nonché il lavoro che hai fatto insieme alla tua Favorite SInger
Grazie ancora e spero che sarai dei nostri per la finale con commenti e voti
Utente
7 agosto, 2013
Me lo aspettavo e penso sia giusto così perché se la può giocare alle pari delle altre in finale penso e quindi sarà molto interessante 😎
Oltre a quelli citati nella mia presentazione in cui Ala e Xello erano compresi anche nei freddi ci tenevo a ringraziare per aver condiviso questo percorso anche Edorf per il suo modo diretto di raccontare cose personali e sparso per aver condiviso la prova sull’amore in cui ci ha fatto entrare un po’ nel suo mondo.
Ringrazio davvero di cuore i tutor, tutti e 4 perché nelle loro diversità mi sono stati molto di aiuto. I giudici anche se all’inizio un po’ vi odiavo e alessandrino per la bella idea che ha messo in campo.
L’unico rammarico, se così si può chiamare, è aver perso di poco la possibilità di vincere una prova in vita mia ma pazienza
Sono scarica di energie quindi avrei fatto fatica a fare una finale all’altezza dei miei compagni a cui mando a tutti e 4 un grandissimo in bocca al lupo!
Che dire, sono emozionato! Grazie davvero a tutti. Alla fine Zombie è stata proprio la canzone che mi ha regalato la finale, le voglio un po' più di bene adesso
D'altra parte, mi dispiace tanto per Semota. Ho letteralmente amato il tuo percorso con Elisa, questa esibizione di Dancing è proprio quella che faccio sempre ascoltare quando voglio fare sentire quanto sia brava. Boh, è un po' come se l'avessimo giocata entrambi e questa cosa mi emoziona molto. Grazie alla prova dei blu abbiamo stretto tutti un bel legame e per questo l'esito è comunque dolceamaro.
Grazie Sem per lo stupendo racconto di Elisa che ci hai regalato.
Utente
7 agosto, 2013
Ben arrivato a Scio che si aggrega alle girls finaliste! Non avete bisogno dei miei auguri perche siete super forti (e perche mi tengo i commenti per la finale )
Una parola per Semota: grazie.
Grazie per esserti data a noi senza riserve, con fiducia e affetto. È emersa la tua passione per Elisa, sì, ma è emersa soprattutto la tua bellezza a tutto tondo. Non dirò la classica cosa (vera) che avresti meritato la finale, gia lo sai.
Se è vero che tu ne esci alla grandissima, fammi dire che ne esco arricchito pure io. Da qui il grazie ♥️
Utente
4 febbraio, 2018
Semota, sei stata una concorrente perseverante, motivata e ricca di voglia di raccontare. Hai avuto un percorso in crescita costante, ed è stato un piacere ascoltare una delle cantanti a cui sono più legato mentalmente, e quella a cui lo sono di più materialmente, attraverso i tuoi occhi. Sei stata la mia preferita per ben due galà (Yashal e This Knot) e ho amato tante altre scelta, tra cui il tuo fortissimo ballottaggio la scorsa volta. Mi dispiace, ma la competizione era serratissima, però è stata una gara di grande livello ed è stato anche merito tuo
Complimenti a Scioooo per questa pazzesca finale, vai a raggiungere le girlsss
Come finirà? Non vedo l'ora di scoprirlo
Utente
7 agosto, 2013
@amers @AbiuraDiMe @Iry8 @Scio16 dopo tanta fatica, impegno, temi ai limiti dell'impossibile, sfide a squadre e duelli diretti siete giunti finalmente al Gala Finale!
Tutti e 4 avete portato avanti un percorso pazzesco! Mai come quest'anno, nella storia di MFS, si assisterà ad una finale apertissima in quanto tutti e 4 partite da favoriti.
E' giunto il momento di scoprire cosa vi aspetta per quest'ultimo e tanto agognato Gala.
MFS 3 - LA FINALE
Come vuole la tradizione di MFS, per la finale vi verrà chiesto di presentare 3 pezzi:
1. Un pezzo inciso mai presentato nella competizione;
2. Un'esibizione live di un pezzo mai presentato in gara;
3. Song of the series: il brano che preferite (o che ritenete più forte in ottica di gara) fra tutti quelli che avete presentato durante la competizione.
Il tutto dovrà come sempre essere corredato da una presentazione che integri tutti e tre i brani (l'ordine in cui proporre i brani potete deciderlo voi a seconda di come deciderete di gestire la vostra proposta).
La consegna di tutto il lavoro dovrà avvenire entro le 18:00 di sabato 20/02.
Buon lavoro e in bocca al lupo, per qualsiasi cosa chiedete pure
Moderatore Junior
7 agosto, 2013
Complimenti a Scio che porta i suoi (e ormai anche un po' i nostri) Mirtilli in finale
Faccio i complimenti e ringrazio anche io Semota per il suo percorso, che è stato personalissimo, molto particolare e ricco di canzoni a dir poco stupende. Vero che c'è stato qualche step iniziale un po' tentennante, ma poi tu ed Elisa siete sbocciate in un My Favorite Singer pazzesco, tanto da essere arrivate a giocarvi la finale anche con margine di piazzamento, secondo me. Un percorso unico nel suo genere, che si è fatto notare e apprezzare nel suo tendere sempre ad evolvere e a fare meglio, con successo. Capisco se un po' ci hai odiati , ma ho apprezzato moltissimo il modo di reagire alle critiche con i fatti, portando di volta in volta proposte valide e anche vincenti, elaborando in modo costruttivo e virtuoso le osservazioni e i suggerimenti. Ciò che ci hai fatto ascoltare e che ci hai fatto leggere è stato sempre molto profondo, emozionante e sentito, come il tuo unico e indissolubile rapporto con Elisa. Ci hai davvero trasmesso il tuo amore per lei e anche delle bellissime sfumature di te. Good job
Utente
7 agosto, 2013
Buon pomeriggio a tutti! E' tempo di
FINALE
[Impossibile trovare l'immagine]
So di essere in anticipo ma i nostri 4 finalisti sono stati così bravi a consegnare in anticipo che non ha senso farvi attendere ancora.
Sono state settimane dure. Siamo partiti in dodici ma Gala dopo Gala abbiamo sempre dovuto salutare qualcuno con grande dispiacere..
[Impossibile trovare l'immagine]
Prove estenuanti, temi complessi, momenti di sconforto... ma anche tante emozioni, soddisfazioni, gioie, non solo per chi il gioco lo ha vissuto sulla propria pelle ma anche per chi, come noi, stava dall'altra parte in attesa di scoprire ciò che i concorrenti avessero in serbo!
E' stata un'edizione sensazionale che si appresta a concludersi col botto! Perciò bando alla ciance e..
@Iry8 @Scio16 @amers @AbiuraDiMe
@Casadelvino @Edre @Alby @Krishoes @Emm @NotturnoManto @mrnace @Mavro @sparso @Oblivion. @Targaryen @Alpha @CrYs @Marco @KassaD1 @Alabama Monroe @edorf @semota
Utente
7 agosto, 2013
My Favorite Singer 3 - Gala Finale
The Cranberries & @Scio16
Eccoci alla resa dei conti. Abbiamo parlato di tante cose, dall’amore nell’era del Covid, all’amore deluso, passando per le perle nascoste, le luci e le ombre dentro me e dentro Dolores. Ho avuto l’onore di poter portare sei progetti discografici su sette, esplorare le loro principali sonorità ma anche bacchettarli su ciò che più recrimino loro.
Se mi chiedo cosa manca ancora, mi viene da rispondermi con una domanda a me stesso: ma hai spiegato perché i The Cranberries sono i tuoi Favourite Singer? Perché qualcuno che ti ha letto dovrebbe iniziare ad amarli?
Per me questa è davvero l’opportunità di dare un sequel a un racconto già di per sé completo. Di solito però, per fare un sequel che sia coerente bisogna sempre andare a reinterpretare qualcosina degli eventi passati.
Al ballottaggio, parlando di Zombie, ho cercato di superare la mentalità del fan deluso dal fatto che i propri beniamini non hanno avuto un meritato posto nell’Olimpo della musica e ho deciso finalmente di abbracciare Zombie, accettandola come emblema del loro successo.
E invece no. Riavvolgiamo.
Zombie è uno splendido riconoscimento ma esistono un milione di altri motivi per amare i Cranberries e io vorrei usare la finale per parlarvene.
Ok, un milione sarebbero troppi, ma vorrei mostrarvene almeno tre, come i brani che dobbiamo presentarvi, inserendoli nel contesto di percorso che riassume anche tre specifici momenti della loro carriera artistica e crescita personale.
1. LA PUREZZA
I Will Always è un brano contenuto nel primo studio album dei The Cranberries, ingenuo già a partire dal titolo: Everybody else is doing it, so why can’t do we?. È assolutamente la cosa più anti-discografica che io possa concepire, eppure incuriosisce, già lascia immaginare dei ragazzi che vogliono fare arte senza pensare alle stupide logiche di mercato.
Probabilmente i motivi per cui io ho amato (e credo che altri potranno amare) questa performance sono su per giù gli stessi motivi per cui tanti altri ancora la odieranno.
Fin dalle prime note è chiaro che questo brano risulti un po’ pallido tra decine di pezzi più potenti o dalla melodia più accattivante. È estremamente semplice, ricorda quasi una filastrocca, anzi una ninna nanna. Il testo è una promessa d’amore, di fedeltà incondizionata. Anche se nell'intento originario era dedicata a un ragazzo, sembra quasi parlare dell’amore di una madre per suo figlio.
“E adesso ogni cosa vale lo stesso per me. Sii ciò che vuoi essere, vai dove devi andare. Io sarò sempre al tuo fianco. Tu sempre lo capirai.”
Essendo una prova live, però, lascerei da parte i dettagli sul brano in sé, mentre vorrei cercare di puntare l’attenzione sugli elementi che differenziano un live dalla studio version: i volti, i sorrisi, le smorfie, gli sguardi, le inquadrature, la fronte perlata, la voce che si rompe, l’imprecisione che può diventare perfezione.
Dolores è una ragazzina, di circa 21 anni. Colpisce subito quanto fossero giovani e un po’ impacciati a cantare “davanti” al pubblico olandese sintonizzato all’ascolto, un pubblico estero che avrebbe potuto amplificare geograficamente la loro musica oppure avrebbe potuto dare loro un sonoro due di picche. All’inizio ridacchia e suggerisce timida ai compagni di fare del loro meglio.
Poi si concentra e inizia a cantare. Io vedo nei suoi occhi quello che forse chiameremmo “sacro fuoco dell’arte”, è quasi in una trance agonistica ma dalla sua voce e dal suo sguardo viene fuori un incredibile mondo interiore. Sembra una bambina con decenni di vissuto alle sue spalle.
Sussurra e in determinati momenti, sul finire della strofa, fa con la voce quello che io chiamo “arabesque”, un piccolo gorgheggio che si accompagna a buffe contrazioni dei muscoli facciali. Nell’epoca della voce iper-compressa e dell’estetica che prevarica ogni altro aspetto, questa gestualità spontanea può risultare quasi cringe, ma io la trovo di una potenza dirompente. Non le importa di sembrare bella né adatta al ruolo. Ha i capelli cortissimi, non ha un filo di trucco, i denti non sono perfetti ma li mostra senza timore in inquadrature strettissime, fa le smorfie e non le importa di essere precisa nel canto, le basta essere intensa. E per me, alla fine, risulta anche bellissima.
Nel complesso mi arriva un buon esempio di arte che porta all’emancipazione, ancora di più se si pensa che lei arrivava davvero da un paesino di campagna e ha dovuto lottare contro genitori e amici per avere la possibilità di essere strappata a un futuro di mediocrità praticamente segnato. Ne parlerà qualche anno più tardi nella splendida Ode to My Family.
Nel ritornello, con il semplice aiuto di un piccolo effetto reverb, riesce a sfumare la fine delle note in una maniera davvero coinvolgente. Sembra quasi che la voce provenga dal centro di un’arena e arrivi all’orecchio dopo aver viaggiato per il pendìo dolce degli spalti.
“E adesso ogni cosa vale lo stesso per me. Sii ciò che vuoi essere, vai dove devi andare e quando dietro non sarà rimasto nulla, avrai tutto ciò di cui hai bisogno.”
Dopo che resto normalmente mesmerizzato per diversi istanti, al minuto 3:14 Niall mi fa sentire un po’ lì con loro e pensa CHIARAMENTE la stessa cosa che penso io: sembra dire “ammazza, che performance che stiamo facendo” e sì, sono completamente d’accordo.
Alla fine, Dolores fa un’espressione di esultanza che mi scioglie come poche cose: mi sembra di guardare la mia amica del cuore che è riuscita a farsi valere con un'esibizione stupenda.
Lo so, avrei potuto puntare a coinvolgervi con la delicatezza di un accompagnamento orchestrale o con la forza del chitarrone spinto, magari sulle note di un loro grande successo. Sono sicuro però che nessuno di essi avrebbe restituito così fedelmente la purezza del loro modo di fare arte, caratteristica che più di molte altre mi fa amare i Cranberries.
2. LA SEMPLICITA' DEL COMPLESSO
Daffodil Lament arrivava poco più di un anno dopo, ma le esperienze accumulate si fanno sentire.
Dopo mesi in tournée, immersi in una vita che mai avrebbero sognato di avere, i quattro ragazzi di Limerick avevano iniziato a maturare. Di pari passo con la loro personalità che diventava più strutturata e complessa, anche la loro musica iniziava ad assumere delle espressioni molto più articolate, senza perdere la solita semplicità e il grande dono della sintesi che aveva sempre caratterizzato la penna di Dolores. Gli arrangiamenti iniziano ad colorarsi in maniera variopinta, le emozioni descritte si arricchiscono di molteplici livelli di lettura.
Ho già avuto modo di spiegarvi Daffodil Lament all’inizio di questa avventura insieme. Se in quell’occasione, però, ho puntato l’attenzione sul turbinio di emozioni che mi suscita e sulle sue possibili interpretazioni, la riprendo ora per analizzarla più da un punto di vista stilistico.
È soprattutto dal lato musicale che semplicità e complessità si scontrano, quasi in una lotta tra uno yin e uno yang che arrivano a compenetrarsi al fine di creare il giusto bilanciamento di entrambi.
Il brano si svolge in tre distinte sequenze a cui corrispondono diverse atmosfere evocate ed è questo, insieme alla melodia che deve variare per inseguire continuamente l’armonia, a rendere il brano apparentemente complicato a un ascolto distratto.
Se però stringiamo il focus, ci accorgiamo che gli arpeggi sono estremamente semplici e la melodia viaggia quasi sempre su coppie di note dritte e senza fronzoli. Gli accordi che si susseguono per formare l’armonia tendono a ripetersi. Le parole sono poche e dirette, riescono a raccontare la superficie di una storia che ha un suo senso letterale compiuto.
“Tengo duro. È ciò che faccio da quando ti ho incontrato. Non sarà ancora per molto. Te ne accorgeresti se me ne andassi?”
Una ragazza vive un amore conflittuale, in cui non si sente apprezzata e decide di porre fine al rapporto. Resta tutta la notte con la testa sul cuscino senza riuscire a dormire. A un certo punto l’atmosfera cambia e si distende. La ragazza tiene il pugno sulle sue decisioni.
“Né il tuono né il fulmine potranno cambiare ciò che sente, oggi il giunco dorme sereno”.
Alla fine l’atmosfera torna cupa, come a sottolineare quanto il dolore richiederà ancora un bel po’ per essere completamente assimilato.
Nella prima prova però vi ho dato altre tre interpretazioni del significato dello stesso brano e tutte e tre vi sono risultate credibili. È questo che intendo, quando parlo di "semplicità del complesso".
Abbandonare la pretesa di creare qualcosa che, per sembrare impegnato, sia per forza astruso e scegliere una via più semplice e diretta è pienamente nello stile dei Cranberries. E il bello è che la sensazione di complessità all’ascolto del brano resta comunque intatta.
Essendo la musica leggera fatta per colpire l’orecchio e il cuore delle persone, penso che sia uno sforzo che valga sempre la pena fare quando si è dei veri artisti. È per questo che la ritengo una virtù rara e preziosa, un obiettivo a cui ho sempre cercato di tendere quando scrivevo le mie canzoni e uno dei motivi per cui i Cran meriterebbero per me di essere presi ad esempio stilistico.
3. LA LUCIDITA'
Du du du du.
Conosco poche cose più iconiche di queste quattro sillabe intonate in questo modo.
Dolores non ha mai amato i giri di parole. Sempre dritta al punto nel suo songwriting, tagliente e lucida nel descrivere sensazioni e sentimenti non per come sarebbe bene che fossero, ma per come realmente sono. Sente la mancanza dell’Irlanda, ma canta che in effetti ci fa troppo freddo, adora i suoi compagni ma in occasione del secondo ricongiungimento con la band nel 2017 dice “Non ci siamo visti né sentiti in questi 5 anni. Dopo tanto tempo, la reciproca compagnia ci era venuta a nausea”.
Oppure pensa alla famiglia e alla sua infanzia mostrandone luce e ombre, come fa proprio in Ode to My Family, un immenso successo del 1994 qui reinterpretato in versione orchestrale nell’ultimo lavoro della band in cui Dolores era ancora in vita, Something Else del 2017.
I ragazzi di I Will Always erano cresciuti, ormai andavano per la cinquantina. In mezzo c’erano stati divorzi, lutti, dipendenze, conversioni religiose e tutti gli inevitabili cambiamenti che diventare grandi porta con sé.
Oltre che per la scelta di creare un percorso anche temporale, mi piaceva tantissimo l’idea di portare questa canzone in una rivisitazione contemporanea, perché l’ho sempre considerata un loro capolavoro, ma è come se l’avesse scritta una persona molto più adulta. Il pezzo descrive la nostalgia verso un passato ormai lontano, con la lucidità e la maturità che mi aspetterei proprio a 50 anni, non a 23.
“Capisci le cose che dico, non mi voltare le spalle. Perché ho vissuto metà della mia vita lì, saresti d’accordo con me (se capissi)”.
Il brano inizia già con un dialogo immaginario con sua mamma. Una delle cose che reputo più poetiche è che il brano si chiama Ode to My Family, ode alla mia famiglia, e già dall’incipit è pieno di recriminazioni. Ma la storia di quale famiglia non nasconde recriminazioni o situazioni irrisolte e dolorose? In questo senso, il titolo del brano è perfettamente azzeccato ma l’obiettività con cui viene affrontato il tema mi ha sempre spiazzato, forse perché abituato a narrazioni generalmente più idealizzate e addolcite, oppure a quelle dure e totalmente negative.
“Infelicità. Dove sono finiti gli anni in cui eravamo giovani e non ci importava niente? Perché siamo cresciuti per vivere la vita come un divertimento e divertirsi quando possibile.”
Il ritornello apre con "unhappiness", che mette subito in chiaro qual è il sentimento che il quadro successivo va a suscitare. “Mia madre, mia madre mi teneva quando andavo fuori” Dolores adorava sua mamma, ma ripensando al passato riesce a descriverla solo come quella che non le permetteva di lasciare quella maledetta vita di provincia. “A mio padre, a mio padre piacevo. Importa a qualcuno?” Penso sia una delle chiuse più distruttive della storia della musica, uno schiaffone che riporta alla realtà. Alla gente che abbiamo intorno non importa niente di chi siamo e di ciò che abbiamo vissuto, è importante continuare a costruire e dimostrare qui e ora.
La melodia sognante, i violini (presenti anche nell’originale) la leggerezza e il trasporto nella voce di Dolores, penso che abbia sempre fatto pensare a noi italiani che questo brano fosse un dolce dedica alla famiglia. Mettici poi che si capiva giusto “my mother, my father”, e il motivetto smielato e intriso di amore per il nido è servito. È solo approfondendo i The Cranberries che capisco che non può essere così semplice, perché non lo è mai con loro.
Dolores sarebbe venuta a mancare l’anno successivo ed era in una condizione psicologica davvero pessima. Avevo una mezza idea di strutturare la mia finale su un live del 2017, ma la fatica di portare a termine ogni esibizione si percepiva chiaramente anche da questo lato dello schermo.
Volevo darvi un assaggio dell’ultima Dolores prima di salutarvi, e sono felicissimo di averlo potuto fare con un brano del mio cuore. Scoprire solo un anno fa questo album mi ha davvero sollevato. Si sente una voce un po’ più rigida, che fa un po’ fatica a fare quegli “arabesque” ma che ancora riesce a trasmettere un affascinante mondo interiore attraverso alcuni dei pilastri piantati nel terreno decenni prima.
FRANCESCO E I THE CRANBERRIES
La playlist sembra scorrere via in grande pacatezza, ma in realtà nasconde un viaggio lungo almeno 5 vite: la loro e la mia.
Per me è stato un brutto colpo quando Dolores se n’è andata. Ero rimasto a Roses del 2012 e, a dirla tutta, ne ero rimasto anche un po’ deluso. Aspettavo il nuovo album ma praticamente li avevo abbandonati dopo che mi avevano dato tanto e questo mi faceva sentire in colpa. Significava che quella casa calda e accogliente non c'era più ed era arrivato il momento di crescere. Non ci si può più soffermare sui dettagli, perdere tempo, emozionarsi troppo rischiando di farsi male.
In realtà però la casa accogliente era sempre lì, solo che era diventata vuota e silenziosa.
Questo gioco mi ha dato la possibilità di riarredarla e renderla di nuovo viva e luminosa, utilizzando questa volta me stesso e le mie emozioni per far rivivere i Cranberries. Questo mi ha fatto notare che le tre cose che amo dei Cran erano diventate tre dei capisaldi della mia personalità e ciò su cui devo concentrarmi per diventare un uomo che si piace davvero.
Anche io mi sento una persona pura, traslucida, che cerca costantemente di distruggere le sovrastrutture che gli altri ci costruiscono attorno. Riesco a sorridere o ad essere leggero su tante cose, anche le più scandalose, senza per questo dover rendere conto di tutto il mondo che c'è dietro. Sono quello perennemente inadeguato, quello che dice la parola sbagliata al momento sbagliato e la cosa assurda è che molto spesso mi sono sentito apprezzato proprio per questo. Forse, come succede col live di I Will Always, l’essere trasparenti nel bene e nel male suscita una buona dose di empatia, anche se non devo mai dimenticare che questo rischia di rendere più vulnerabili alle critiche.
Io non ho il dono della sintesi che aveva Dolores, come avrete avuto modo di notare, ma è una delle cose che m’impegno ogni giorno per imparare. Sono però un ragazzo semplice, dalla parlata buffa e non troppo articolata, che racchiude in sé un animo complesso, spesso controverso e inaccessibile anche a se stesso. Ricordo bene quando qualcuno, tra giudici e tutor, disse che io aprivo uno spiraglio su me stesso, senza spalancare la porta, esattamente come fa Daffodil Lament col suo stile testuale asciutto ed enigmatico. La stabilità emotiva è un po’ un’utopia e l’altalena di atmosfere che Daffodil Lament ci trasmette con le sue tre “fasi” spesso somigliano alle sensazioni che mi trovo a provare durante una mia giornata tipo. Spesso lascio anch’io che “l’atmosfera”, cioè i miei sguardi, il tono di voce, le facce raccontino di me molto più di quanto non facciano le parole.
Combatto ogni giorno contro il peso delle aspettative e cerco di affrontare tutto con quanta più lucidità possibile, con uno sguardo al bello e uno verso il brutto, perché anche quello merita di essere conosciuto e processato. Mi piace tantissimo perdermi nella fantasia e nei ricordi ma fatico a credere nelle utopie e nei discorsi di principio. Discorsi come "andrà tutto bene" o "siamo tutti uguali" non fanno per me, li trovo semplicistici e penso che veicolino un messaggio edulcorato e quindi complessivamente sbagliato. Non siamo tutti uguali, siamo tutti diversi e dovremmo essere capaci di sostenerci proprio in virtù delle differenze, soprattutto quelle spiacevoli. Questo è il mio modo di affrontare ogni ragionamento e la poetica di Ode To My Family è un po' uno specchio di quello che sono, nonché l'immagine di un Francesco futuro a cui vorrei tendere. Spesso per questo passo per duro, insensibile, il classico guastafeste che cerca sempre il marcio ovunque, quando semplicemente credo che guardare le cose da ogni angolazione possibile sia una grande possibilità di arricchirmi. Anche io, come la Dolores della versione del 2017, sono cresciuto e sto attraversando un momento di difficoltà, ma cerco in ogni modo di tenere sempre ben salda la speranza facendo forza sui miei pilastri che ho piantato nel terreno.
Nella presentazione al gioco vi avevo parlato di un legame viscerale, quasi genetico. Ecco, a me non piacciono i Cranberries, loro mi hanno letteralmente cresciuto e accompagnato nei primi trent'anni della mia vita. I tre motivi che vi ho elencato sono soltanto gli aspetti che più mi rendono somigliante a loro.
Mi hanno trasmesso dei valori, educato verso un certo tipo di sensibilità. Sono stati capaci di farmi aprire gli occhi sul mondo e sono riusciti a essere parte di me ancora prima che io ne avessi coscienza, come quando da adolescente non ricordavo di aver mai sentito Salvation ma scoprii che la cantavo già a 5 anni con le parole storpiate.
Non so dire se ho scelto questi tre aspetti perché mi piacciono o se mi piacciono questi tre aspetti perché i Cran negli anni mi hanno educato a questo tipo di gusto e di sentire. In tutto quello che ho portato in questo gioco c’era un po’ di me anche quando parlavo di loro e probabilmente c’era anche un po’ di loro quando raccontavo di me. È tutto inscindibilmente legato e se ho visto meraviglia dove non ritenete che ci sia, perdonatemi, ma quando si parla di noi stessi non siamo mai obiettivi.
Però in ogni caso mi viene da dirvi un grande grazie, per averci apprezzato così tanto.
Ah e comunque, nonostante il sequel, il finale originale rimane: ho fatto pace davvero con Zombie.
Afterhours & @amers
AFTERHOURS
Dopo l'esperienza dello scorso anno non pensavo di rimettermi nuovamente in gioco perché avevo dato tanto dal punto di vista personale e non me la sentivo di aprirmi ancora. Però alla fine la tentazione di portare un gruppo come gli Afterhours che mi ha davvero accompagnato in maniera costante dal 1998 a oggi è stata troppo forte ed eccomi qua.
Per questa finale ho deciso di chiedere un aiuto esterno, mi sono rivolta a Charles Dickens e, anche se Natale è passato da un pezzo, gli ho chiesto di prestarmi i suoi tre Spiriti: passato, presente e futuro. E ora sono pronta a concludere questo cammino.
Spirito del Passato: Sulle Labbra
Quando ho presentato Sulle Labbra ho parlato dell'amers adolescente, piena di dubbi e paure nell'affrontare la sua omosessualità ma anche della sua introversione e delle sue difficoltà nell'essere senza maschere e muri. Maschere che mi hanno accompagnato per anni e che ogni tanto fanno ancora capolino, soprattutto quando devono proteggermi dalle delusioni e quando devo proteggere chi amo.
Sulle labbra però mi ricorda una parte importante del mio passato e mi ricorda la persona che non voglio più essere. Almeno non completamente.
Essere omosessuale nei primi anni duemila in un paese di nemmeno duecento persone è stata una delle cose più difficili che abbia dovuto affrontare, ho cercato di omologarmi commentando i ragazzi e seguendo le mode dell’epoca, altrimenti chissà cosa potevano pensare i cosiddetti amici e i parenti. Vivendo una storia con il mio migliore amico, ferirlo e usarlo per paura di essere etichettata come diversa. La paura di non essere normale.
Ti ritrovi sulle labbra
A giustificarti quel che sei
Quando rientravo a casa la sera immaginavo le labbra di una donna sulle mie invece che le sue e piangevo mentre allo specchio vedevo ciò che stavo diventando e che mi feriva. Ma non riuscivo a smettere. Non volevo smettere.
Non riuscivo nemmeno a pronunciare la parola lesbica, mi faceva paura. Ero timida e introversa e venivo già isolata, non volevo ci fosse un motivo ulteriore.
La tua primavera è un incubo
Disobbedire acquista un senso in più
Ho iniziato a disobbedire alla normalità che mi veniva imposta col tempo, quando ho finalmente capito che non cambiava niente se mi perdevo nel fondoschiena della biondina del classico invece del calciatore dell'ultimo anno, quando ho capito che quell'aspetto era parte di me ma io restavo uguale. Avevo capito ma temevo di dirlo a voce alta, almeno un passo era stato compiuto e mi accontentavo di questo.
Sulle labbra è il mio spirito passato che mi dà pizzicotti per non farmi cadere negli stessi errori. E mi ricorda anche che tipo di persona io non voglio accanto, non voglio chi deve ancora giustificarsi e temere il giudizio altrui, non voglio qualcuno che mi ami solo di nascosto e che possa pensare che il sentimento sia inquinato, non voglio essere un segreto da custodire.
Voglio accanto chi è capace di disobbedire.
Ed è con questa consapevolezza che mi accingo ad accogliere lo spirito del presente: Orchi e streghe sono soli.
È un pezzo che fa parte di un album, I milanesi ammazzano il sabato, che non ho mai amato e che trovo il meno riuscito della band, per parecchio tempo l'ho anche ignorato e cancellavo il 2008 dalla loro discografia.
Poi per il gioco l'ho riascoltato e mi sono illuminata: Orchi e Streghe sono soli racconta il mio ultimo periodo ed era giusto portarlo come tassello finale per il mio percorso. Agnelli con estrema delicatezza canta una sorta di ninna nanna per la figlia e per sé stesso, perché si è reso conto di quanto possano essersi d'aiuto reciprocamente.
Nel 2008 forse non avevo la sensibilità che ho acquistato con gli anni o semplicemente non ero ancora pronta ad affrontare le emozioni che mi ha scaturito e ora posso invece affrontare anche questo mio lato.
La canzone inizia e nella mia mente fanno capolino due piccole figure, coloro che sono stati per anni il mio presente e la mia quotidianità e che hanno contribuito a farmi diventare ciò che sono.
Orchi e streghe sono soli
E non riescono a dormire
Fa paura puoi sognare
Che non hai vissuto mai
Eccoli, sono due semplici cinni* ma che mi hanno insegnato a ridere del nulla, a divertirmi con le piccole cose, a ricordarmi del bambino che ho dentro e a non smettere mai di essere una sognatrice. Avevo dimenticato cosa volesse dire sognare a occhi aperti e me l'hanno ricordato. E mi hanno ricordato che non è vero che non ho vissuto pienamente la mia vita, erano solo le mie paure. Non erano reali e dovrò ricordarlo anche nel futuro.
Io li educavo, insegnavo a scrivere e leggere, a farli diventare dei padawan*, a giocare a scacchi e ad apprezzare la chimica mentre loro mi insegnavano semplicemente a non aver paura. Perché mi avrebbero protetto dagli incubi.
Perché sono i mostri a dover temere la solitudine, non io. Non potevo essere sola perché avevo loro accanto.
Ho passato sette anni a insegnare loro ogni cosa ma sono stata io a essere più ricca alla fine del percorso. Un percorso senza data di scadenza perché continua anche se ora ci separa il mare.
Orchi e streghe sono soli
E io invece ora ho te
Dormi hai voglia di sognare
Bimba fallo anche per me
I vari mostri sono soli, fanno anche tenerezza lì nel buio che aspettano di nutrirsi delle nostre paure. Ma io non cederò, anche se a volte non so più sognare perché sono stanca, anche se a volte voglio mandare tutto al diavolo, anche se a volte voglio solo essere sola, ci pensano loro a fare tutto questo anche per me. E lo fanno divinamente.
Spesso mi hanno detto che non essendo madre non posso capire certe sensazioni e non posso permettermi di dare insegnamenti, non sono madre e mai lo sarò ma questo non deve essere una colpa o un difetto. È solo una forma di amore. E il nostro amore reciproco è qualcosa di forte e che mi ha fatto crescere umanamente più di quanto riesca ad ammettere.
Questa crescita mi rende consapevole di essere felice, una felicità diversa da come l'avevo immaginata anni fa, una felicità ancora incompiuta ma ugualmente piacevole.
Ed è qui che interviene, quasi a gamba tesa, lo spirito del futuro per ricordarmi ciò che devo essere per non cadere o se cado sia pronta rialzarmi.
Spirito del futuro: Se io fossi il giudice
Il pezzo fa parte del loro ultimo album, Folfiri o Folfox, ed è un racconto che come quasi tutti i pezzi degli Afterhours ho plasmato al mio essere e fatto mio.
Oggi svegliandomi
Ho realizzato che
Che tutto il resto è stupido
Voglio provare a vivere
Che ci sia luce oppure
Sia oscurità
Cammino come un uomo
E parlo come un uomo
La consapevolezza di dover vivere la propria vita a prescindere da ciò che abbiamo dentro e non fare in modo che qualcosa o qualcuno possa farci uno sgambetto. Parole che da un anno a questa parte ho fatto sempre più mie e che mi ricordano di quanto le mie scelte di vita, giuste o sbagliate che siano, devono essere fatte con dignità e testa alta. Non devo camminare china avendo paura del giudizio.
Per anni ho cercato di accontentarmi e provare a sentirmi realizzata in qualcosa che non sentivo mio totalmente, qualcosa che faceva piacere agli altri ma non a me. La paura del giudizio, simile a quella che provavo da ragazzina ma per un motivo differente, su ciò che volevo davvero essere era superiore alla volontà di ottenerlo.
Per una volta voglio essere io il giudice.
Ognuno ha un modo di abbracciare il mondo
Il modo che ho è soffrire fino in fondo
Libero di non essere più me
Libero di non piacerti più
Libero di buttare tutto via
La libertà di essere ciò che davvero voglio, a costo di non essere più affascinante agli occhi altrui. Come ho lottato anni per essere me stessa e non vergognarmi di ciò che provo, voglio essere libera di soffrire, di ridere, di essere felice ma anche di essere triste. Voglio essere libera di dire Cambio vita. Totalmente. Senza essere guardata con sguardo pensieroso e dubbioso. Io voglio la libertà di scelta, anche se non è facile accettarla e capirla, l'importante è che sia mia.
Oggi svegliandomi ho realizzato che
Tutto il resto è stupido
Voglio provare a vivere
Vivere. Una semplice parola che nasconde però più significati. A volte ho vissuto una vita non mia, come se fossi una spettatrice o fossi dentro un sogno.
Ma poi arriva quel momento dove ti ricordi che devi essere protagonista e non solo una comparsa, resetti tutto e vivi. Non è semplice ma è la cosa migliore che ci sia.
Oggi svegliandomi
Credevo fossi tu che mi dicevi
"Stupido, devi tornare a vivere"
Vivere come meglio credo.
Disobbedendo.
Amando.
O anche semplicemente respirando. Basta sia la mia vita.
Ed è qua che finisce la mia strada in compagnia degli Afterhours, una strada non sempre dritta e con qualche fosso, non è la strada che avevo programmato ma indubbiamente è quella che racchiude in maniera più completa il nostro rapporto.
Con questi tre ultimi pezzi ho voluto raccontare amers attraverso le loro canzoni, dando risalto a pezzi poco conosciuti e facendone riscoprire altri. Facendovi entrare nel loro mondo e forse un po' anche nel mio.
*cinni=bambini in dialetto emiliano
*padawan=un ragazzo/un adulto che viene addestrato da un Cavaliere Jedi
Caparezza & @AbiuraDiMe
Dopo intense settimane di scelte, di analisi e di svisceramento di canzoni vorrei che questo capitolo conclusivo servisse per tirare le somme di questo incredibile viaggio che ho compiuto insieme a Michele.
Da quando ho appreso dell'esistenza del contest non ho avuto un attimo di esitazione nello scegliere il mio "favourite singer" con cui partecipare. Col passare del tempo questa idea si è rafforzata sempre di più, durante tutto il percorso mi sono sentita guidata da lui, dalle sue canzoni e dalle sue parole e attraverso esse ho provato a raccontare lui e talvolta me.
Ripercorrendo mentalmente i vari step che ci hanno portato fin qui mi sono resa conto che le varie sfumature di Caparezza che ho cercato di mettere in luce potrebbero essere racchiuse in tre macro categorie che sono anche i motivi principali per cui Michele è il mio artista preferito: la sua scrittura, il suo essere intensamente introspettivo e la sua costante ricerca di equilibrio tra leggerezza e profondità.
Dunque, per questo gala finale ho scelto tre canzoni rappresentative di ogni categoria.
La prima ragione per cui considero Caparezza il mio favourite singer risiede nel fascino che esercitano su di me il suo tipo di scrittura, la sua inventiva e la sua capacità di immedesimarsi in personaggi impensabili e riuscire a raccontare i più svariati tipi di storie.
Un brano che trovo riesca a mettere bene in luce questa sua prima caratteristica è Argenti Vive, contenuta nell'album Museica del 2014.
La canzone è un viaggio nell'inferno Dantesco, più precisamente nel cerchio degli iracondi e dei violenti. Dante e Virgilio stanno attraversando la palude dello Stige, traghettati dal demone Flegias, quando il sommo poeta intravede una sua vecchia e odiata conoscenza, Filippo Argenti ed esprime il desiderio di vederlo sprofondare nel fango. Il brano si apre con un recitativo dei versi della Divina Commedia, parafrasati e semplificati per essere di più immediata comprensione.
"Mentre solcavamo l'immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango
Allungò verso la barca entrambe le mani ma Virgilio pronto lo respinse dicendogli
"Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti!"
Ed io:" Maestro sarei molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di vederlo immergere in questa melma"
Poco dopo vidi gli iracondi fare di lui un tale scempio, che per esso ancora glorifico e rendo grazie a Dio
Tutti insieme gridavano: "A Filippo Argenti!"
Con l'inizio vero e proprio della canzone lo scenario dantesco viene stravolto, l'Argenti riemerge dal fango e prende la parola esordendo con un retorico e sarcastico “Ciao Dante, ti ricordi di me?” Continua poi con la sua invettiva contro il poeta, deridendolo come fosse un dissing vero e proprio.”Cos’è vuoi provocarmi, sommo? Puoi solo provocarmi sonno!”
Il ritmo delle strofe è estremamente serrrato ed è scandito dai suoni duri e spigolosi delle parole scelte con grande cura:
“Alighieri, vedi, tremi, mi temi come gli eritemi, eri te che mi deridevi, devi combattere Ma te la dai a gambe levate, ma quale vate? Vattene!”
L’Argenti prosegue poi per tutto il racconto a provocare il poeta, portando avanti il dualismo tra forza bruta e forza delle parole
“Le tue terzine sono carta straccia, le mie cinquine lasciano il segno” o anche “cosa pensi tenga più a bada, rima baciata o mazza chiodata?”
mostrando inoltre l’incoerenza di Dante che, appena ne ha l’occasione, si lascia sopraffare dal desiderio di vendetta condannando il suo vicino di casa ad una fine orrenda, mostrandosi di fatto anch'egli un violento. “Fatti non foste a viver come bruti, ben detta, ma sputi vendetta dalla barchetta di Flegias, complimenti per la regia”
Filippo Argenti termina il suo dissing giungendo all’inquietante conclusione che nel “ in futuro le giovani menti saranno come l’Argenti e l’arte porterà il mio nome”
E se l’Argenti avesse davvero pronunciato queste parole, ora queste apparirebbero incredibilmente profetiche: vomitare e diffondere odio ovunque è ormai una pratica all’ordine del giorno.
A tal proposito, più che un elogio della violenza, come potrebbe sembrare a primo impatto, trovo che la canzone sia in realtà una lucida analisi sull'estrema volubilità e mutevolezza dell'essere umano.
Come racconta Michele in un'intervista, condannando l'Argenti ad una fine orrenda "Dante mostra così di essere violento, creando questo cortocircuito, perché di solito è sempre misericordioso, tranne con il suo vicino di casa. Per questo ho deciso di raccontare la natura violenta dell’uomo, nonostante esso sia un poeta”
Ascoltare l'altra campana, quella dell'Argenti, non serve di certo a scagionarlo o a glorificarlo per i suoi gesti, ma mi porta a riflettere su un concetto che io ritengo estremamente importante nella mia vita e che può essere riassunto con una frase di Nanni Moretti: "le parole sono importanti".
Le parole possono provocare danni enormi, sono uno strumento potentissimo che nelle mani sbagliate può diventare estremamente pericoloso.
La parte musicale, molto più vicina al rock che al rap, contribuisce molto a creare un'atmosfera oscura e violenta e non mi viene altra parola per definirla se non "prepotente". Per tutta la durata del pezzo si viene investiti da questo sound potente ed energico. Quando la ascolto ho sempre la sensazione di essere continuamente strattonata e trascinata a forza dove la canzone vuole che mi porti, come se l'Argenti cercasse costantemente di attirare la mia attenzione. Ed immagino che sia proprio quello che stia cercando di fare un violento che ha atteso circa settecento anni per avere la sua rivalsa.
E rimanendo sempre in tema "importanza delle parole" ma al tempo stesso cambiando del tutto rotta, passiamo al secondo motivo per cui Michele è il mio artista preferito.
Se il primo motivo per cui amo Michele è legalo all'estetica, alla tecnica, alla scelta chirurgica delle parole e le particolari ambientazioni musicali che sceglie di volta in volta, il secondo motivo è ciò che in realtà più mi sconvolge di lui, ovvero la maturità che dimostra nel guardarsi dentro, senza paura alcuna.
Per mostrare il suo lato più riflessivo e intenso vorrei riproporre il brano del secondo gala, Prosopagnosia.
La canzone penso di averla già ampiamente sviscerata, ed è stata quella che più di tutti ho amato giocare. È stato il brano che mi ha permesso di entrare appieno nel meccanismo, il brano con cui ho iniziato davvero ad aprirmi e a raccontarvi un po’ di me, quello che mi ha fatto capire di “essere al sicuro” e che in un certo senso mi ha permesso di arrivare a quella semifinale in cui vi ho buttato addosso un flusso di coscienza piuttosto esagerato (scusate).
Non ho molto da aggiungere rispetto a quello che ho detto a suo tempo. Questo brano è rappresentativo del Michele degli ultimi anni, un Michele che si è trovato a dover fare i conti con se stesso e come racconta in un’intervista “A un certo punto mi sono sentito intrappolato dalla mia vita. Sono sempre stato un tipo ironico, felice, giocoso e lo sono tuttora, ma come tutti ho avuto un momento di riflessione. Ho affrontato i mie fantasmi e li ho fatti fuori”
E arriviamo infine all’ultima canzone e all’ultimo motivo. Come dicevo nei primissimi Gala, in molti suoi brani Michele è in grado di alternare momenti riflessivi e momenti leggeri, creando altalene di emozioni in cui dietro fiumi di (giochi di) parole sono nascoste delle stilettate, delle crude verità, degli attimi di intensa profondità, che arrivano dritte al cuore e alla mente.
La canzone che ho scelto per rappresentare quest’ultima caratteristica è Abiura di me che per l’occasione sono felicissima di presentarvi in versione live.
Questa canzone infatti è quella che ai concerti attendo con più fermento. L’arrivo della canzone si percepisce da subito, sul palco appare sempre qualcosa di assurdo: flipper enormi, pungiball giganti, ballerini vestiti da uccelli di angry birds come nel video che ho scelto. A quel punto Michele e Diego (Perrone, la sua seconda voce) cominciano a giocarci scambiandosi battute sciocche (le battutacce terribili sono un must nei live di Capa), una base musicale simile ad una soundtrack di un vecchio videogiocho ad 8-bit inizia a diffondersi fino a che poi non esplodono il basso e la batteria di Giovanni Astorino e di Rino Corrieri (due dei suoi fedeli musicisti che da anni lo accompagnano nei live e nella composizione degli album).
E appena esplode la musica succede quella magia tipica di tutti i concerti: tutte le persone presenti scoppiano nel medesimo urlo liberatorio e iniziano a saltare come fossero un'unica grande entità. E io in mezzo a quel mare di gente che è lì per il mio stesso motivo mi sento felice.
Ma torniamo alla canzone.
Abiura Di Me fa parte del quarto album di Caparezza, Le Dimensioni del mio caos.
In questa canzone Michele sfrutta tutta una serie di giochi di parole legati al mondo dei videogiochi per parlare di sé e di ciò che vede intorno a lui.
E così i videogiochi diventano un escamotage per dichiarare la sua posizione sempre critica e attenta "io faccio politica pure quando respiro, mica scrivo musica giocando a Guitar Hero".
Per Michele fare musica per esprimere il proprio pensiero è fondamentale "questi argomenti mi fanno sentire vivo, in mezzo a troppi zombie da Resident evil"
È sempre stata un'esigenza "Io devo scrivere perché sennò sclero, non mi interessa che tu condivida il mio pensiero"
Come ho già avuto modo di raccontare nel gala sull'amore, col tempo Michele è diventato un tutt'uno con questo suo grande amore che è la scrittura e l'esigenza che in questa canzone esprime in maniera febbrile e tesa si è pian piano trasformata in una realtà consolidata.
Trovo che questo brano sia una perfetta dichiarazione di intenti su ciò che Caparezza vuole fare con la sua arte.
Michele è in costante ricerca di miglioramento, vuole passare al livello successivo, non essendo mai pienamente contento e soddisfatto di quello che è. Queste insicurezze lo rendono in qualche modo paranoico ed ossessivo fino a farlo dubitare di lui, fino ad arrivare al punto di abiurare se stesso, fino a rinunciare alla sua persona per potersi poi ricostruire ogni volta e ricominciare da zero.
Sto parlando di Michele, ma durante tutto questo tempo mi sono così abituata ad intrecciare i miei pensieri ai suoi che anche in questo caso è come se stessi parlando di me.
Dopo aver fatto slalom tra le varie sfumature di Michele e della sua arte, scegliere questo brano per chiudere il cerchio mi permette di tornare al punto di partenza perché trovo riesca a rappresentare perfettamente quell'equilibrio a cui aspiro, di cui parlavo all'inizio, con dei punti unici e singolari di profondità e tutt'intorno leggerezza e occhi aperti sul mondo.
The Beatles & @Iry8
Ho iniziato il gala di presentazione chiedendomi “Come spiegare cosa rappresentino per me i Beatles?”. Guardando indietro al mio percorso, la risposta che mi sono data è “facendoli emergere dalle acque della storia come persone per spiegarli come artisti, rendendoli concreti tanto quanto sono arrivata a sentirli io attraverso la loro musica, tratteggiando le figure di John, Paul, George e Ringo con lo stesso pennello che userò per descrivere me”. Che dire, spero tanto di esserci riuscita. E se a volte gli aneddoti che ho riportato sono potuti sembrare un “di più”, per me sono sempre stati fondamentali quanto il focus sulle canzoni o su me stessa. Ho letto molto su di loro perché ascoltando le loro tracce sentivo il bisogno di capire chi fossero esattamente questi quattro giovanotti, perché le loro musiche mi dicessero così tanto, perché li sentissi più vicini di quanto abbia sentito alcuni miei coetanei. Per questa ultima prova, però, voglio togliermi le vesti di biografa, di enciclopedica, di osservatrice: voglio tuffarmi e immergermi fino in fondo in quello che è ed è stato il mio rapporto con i miei Favorite Singer.
E da dove iniziare a concludere, se non da Help!?
Help! è una delle prime canzoni dei Beatles che ricordo di aver sentito, o comunque riconosciuto, su quel famoso iPod dieci anni fa. Sicuramente è la prima canzone di John che ricordi con chiarezza di aver ascoltato. Il motivo per cui mi aveva colpito più di altre era semplice: la parola che compone il suo titolo e che viene ripetuta in maniera martellante era una che riuscivo a comprendere bene, anche in una lingua che non mi era ancora familiare.
Ho scelto questa versione live perché, se dovessi ricercare quel something che ha acceso la scintilla in me, probabilmente la troverei in questo video. Qui c’è tutta l’essenza dei primi Beatles: John che fa qualche battuta scema prima di attaccare con la canzone e che AMA stare al centro dell’attenzione. Paul e George che si dividono lo stesso microfono, andando ad aggiungere quell’elemento così beatlesiano dei coretti che danno complessità e completezza al brano; Paul con quel suo mezzo sorriso stampato in faccia, il suo basso al contrario e il suo muoversi a ritmo della musica, George con la sua riservatezza e serietà. E Ringo, che accetta di restare in secondo piano e mette tutto se stesso in quelle percussioni. Help!, ancora una volta, è la dimostrazione di quanto la collaborazione del gruppo tutto insieme funzionasse alla perfezione.
Per di più, la metafora dei coretti si può applicare anche alla produzione dei Beatles in generale: ciò che arriva di primo impatto è la voce principale, la musicalità e l’energia, mentre solo in un secondo momento si registrano le voci di sottofondo e il significato della canzone. In particolare, anche se dal ritmo non si direbbe, Help! parla di insicurezze e fragilità, e sembra descrivere alla perfezione la mia situazione di quando me ne innamorai, anche se allora non l’avevo realizzato.
When I was younger so much younger than today
I never needed anybody’s help in any way
But now these days are gone, I’m not so self assured
Now I find I’ve changed my mind and opened up the doors
Nella mia infanzia non ho avuto bisogno di aiuto: ne ho un ricordo felice, ero una bambina se non espansiva a tratti spavalda, più sicura di sé, circondata dagli stessi compagni di sempre. Con il passaggio alle medie, mi sono ritrovata in un ambiente in cui tutto mi sembrava estraneo, e le persone che avevo attorno non facevano che demolire la mia autostima, pezzo dopo pezzo: il mio aspetto, il mio modo di vestire, la mia passione per lo studio, il mio modo di arrossire. Ho cominciato a chiudermi molto più in me stessa, e la sensazione di inadeguatezza che ho provato in quei tre anni non sono mai riuscita a estirparla del tutto. Ma forse non è un caso che proprio in quel momento io abbia conosciuto i Beatles e mi sia affezionata così tanto alla loro musica. In un certo senso, sono diventati presto un tutt’uno con il mio senso di alienazione dal resto del mondo, perché le persone che mi davano il tormento ascoltavano musica più moderna e non conoscevano niente di loro oltre ai pezzi più famosi. Per me sono stati un rifugio, mentre aspettavo di poter seguire nuovamente il sole.
Help me if you can, I’m feeling down
And I do appreciate you being ‘round
Help me get my feet back on the ground
Won’t you please, please help me?
Queste parole mi sono sempre sembrate rivolte a me. Perché è vero, ho una fantasia molto vivace, la mia mente corre, si esibisce in voli pindarici, si perde tra le nuvole, e a volte ho bisogno di un aiuto a tornare con i piedi ben piantati per terra senza schiantarmi rovinosamente. Un aiuto che non sempre sono stata in grado di chiedere o ricevere, e forse è per questo che ascoltare la voce graffiante di John e pronunciare le parole “aiutami” con lui mi dà un po’ di respiro: mi permette di buttare fuori qualcosa che tengo seppellito dentro di me.
A loro non ho mai avuto problemi a chiedere aiuto, e in loro l’ho sempre trovato.
Il bello dei miei Fab Four è anche che non smettono di sorprendermi. Ho ascoltato le loro canzoni centinaia di volte, le canto costantemente sotto la doccia, eppure con MFS mi sono trovata più di una volta a stupirmi nel trovare nelle loro parole significati che, se non inconsciamente, non avevo mai veramente compreso. Questo è ciò che mi è successo con While My Guitar Gently Weeps, un brano del 1968 che risente del periodo trascorso in India dai Beatles, ma unisce le nuove influenze a quel leggero cinismo amarognolo così tipico del gruppo.
È il brano dei Beatles che forse mi azzarderei a definire il mio preferito, una combinazione di melodia, cantato e testo che riesce sempre a scuotermi, una di quelle canzoni in cui mi immergo così tanto, ad occhi chiusi, da non distinguere più dove finisco io e dove comincia lei. Forse perché è George che canta.
Anche per questo, ho sempre saputo che sarebbe stato il pezzo che mi sarei giocata in un eventuale ballottaggio, la mia ancora di salvezza. Ma nonostante conoscessi già lyrics e musica a memoria, è stato solo quando mi sono seduta davanti al computer per scriverne una descrizione che ho capito esattamente cosa volesse dire per me Guitar.
Ancora una volta, viene evocata davanti a noi una persona solitaria che osserva ciò che si trova attorno, forse è proprio quello stesso “Fool On the Hill”, solo che stavolta riusciamo a cogliere i suoi pensieri. Forse sono io.
Ciò che i miei occhi registrano è che in un angolo c’è un amore assopito, che il pavimento sotto i miei piedi ha bisogno di essere spazzato, che il mondo attorno a me sta girando e cambiando. La visione è estremamente presente in questa canzone, ma è una visione che è più un’impassibile presa di coscienza, un impersonale riconoscimento di ciò che obiettivamente mi circonda.
Il protagonista del brano, però, è un’altra percezione sensoriale: l’udito, che (tutto fuorché impassibile e impersonale) partecipa quasi con angoscia al “gentile pianto” della chitarra: still my guitar gently weeps. E così facendo colora la visione, caricandola di quel pianto che sarebbe rimasto altrimenti inespresso e sottinteso, e permettendo a quei lamenti di trovare il loro spazio verso la fine della registrazione, e raggiungere l’ascoltatore.
I look at you all,
See the love there that’s sleeping
While my guitar gently weeps
I look at the floor
And I see it needs sweeping
Still my guitar gently weeps
I don’t know why
Nobody told you
How to unfold your love
I don’t know how
Someone controlled you
They bought and sold you
I look at the world
And I notice it’s turning
While my guitar gently weeps
With every mistake
We must surely be learning
Still my guitar gently weeps
No, non lo so perché nessuno mi ha mai detto come dischiudere ciò che provo. E sì, spero che da ogni errore io stia imparando. A togliere la polvere dal pavimento, ad alzarmi e uscire in quel mondo che gira, a svegliare quell’amore che dorme.
Il fatto è che George ha questa capacità di parlare di me mentre parla di se stesso. Riesce con poche e semplici frasi a descrivere tutto quel senso di inadeguatezza e solitudine che mi porto dentro costantemente, che mi fa rintanare in quel mio mondo personale da cui ho bisogno di un aiuto per uscire. Riesce a catturare la mia tendenza a osservare e raccontare oggettivamente ciò che mi trovo davanti, cosa che spesso mi fa passare per distaccata o insipida, mentre in realtà dentro di me spero solo che in qualche modo il lieve singhiozzo della mia chitarra raggiunga le orecchie di chi mi ascolta, così come il lamento di George che solo a fine canzone riesce a essere riconosciuto come tale.
Guitar è forse l’esempio più puro di come io spesso mi ritrovi nei brani dei Beatles, e come tramite loro riesca a guardarmi onestamente allo specchio e ammettere diversi miei aspetti caratteriali che altrimenti non avrei compreso.
Camminando e camminando, intravedo un cartello davanti a me. Sopra c’è scritto “fine”. Quella parola da cui io rifuggo, e stavolta non è un’eccezione. Mi guardo indietro e osservo la lunga e tortuosa strada che ho percorso. The Long and Winding Road, appunto. È lei la canzone giusta, ed è Paul la persona giusta ad aiutarmi a lasciar andare questo meraviglioso gioco e tutte le emozioni che mi ha regalato.
Stavolta, però, non voglio interpretarla come espressione di un sentimento di amicizia ferito, bensì come colonna sonora di un continuo incontro tra quattro ragazzi di Liverpool e una ragazza nata quasi sessant’anni dopo di loro. Perché mai come in quest’ultimo mese ho ripercorso questa strada, e notato quanti momenti preziosi ho condiviso con loro: mi passano davanti agli occhi come tante fotografie.
Mi vedo dodicenne in macchina con mio padre, quando ancora il nostro rapporto non aveva alcun tipo di incrinatura, ad ascoltare proprio questa canzone, e lui che mi prende in giro perché all’inizio non sapevo riconoscere le loro voci ed ero convinta che fosse John a cantare.
Mi vedo a sfogliare avidamente il libro pieno di loro foto e racconti autobiografici che i miei mi hanno regalato dopo l’esame di terza media, libro che non sono ancora mai riuscita a finire perché la seconda parte mi provoca puntualmente un’acuta sensazione di malinconia.
Mi vedo quando a lezione di inglese incorrevo in delle espressioni presenti nelle loro canzoni, e mi illuminavo pensando “questo lo hanno detto anche i Beatles!” e così apprendevo la lingua con sempre maggiore entusiasmo. Alla fine, pensando alla strada che ho deciso di intraprendere, riconosco loro di essere stati i miei insegnanti di inglese più convincenti.
E mi vedo in una delle giornate più spensierate che abbia mai vissuto, quando a novembre 2019 sono riuscita finalmente ad andare nella città che li ha creati: Liverpool. Piovigginava e faceva un freddo tremendo, ma mi girava la testa per l’emozione di essere là, di vedere quei famosi Strawberry Fields, Penny Lane e Cavern Club che per tanto tempo avevano vissuto nella mia mente come luoghi leggendari. È stato come incontrare per la prima volta un amico con cui hai solo parlato online, dove tutto è più astratto. È stato come avere la conferma che ciò che di loro avevo conosciuto per tutti quegli anni era successo davvero e lo potevo toccare concretamente.
Mentre rivivo tutti questi momenti, mi lascio cullare dalla melodia dolce e struggente di The Long and Winding Road, ed è sulla strofa iniziale che voglio soffermarmi, perché in fondo penso sia perfetta per descrivere il mio rapporto con i Beatles:
The long and winding road
That leads to your door
Will never disappear
I’ve seen that road before
It always leads me here
Lead me to your door
La foto che ho usato per ripresentare questa canzone è un disegno dell’album originale che ho fatto su un quaderno di scuola, durante una lezione evidentemente poco interessante. Non è certo un’opera d’arte, ma sono i “miei” Beatles. Rivedere oggi quel quaderno usato con loro quattro sopra mi fa capire ancora una volta quanto io li possa ritrovare in ogni aspetto della mia vita, quanto anche gli oggetti che mi circondano siano segnati da tracce che “mi riconducono alla loro porta”, perché così tanto è collegabile a loro.
Se ho fame, mangio. Se ho sonno, dormo. E se ho bisogno di sentirmi a casa, metto i Fab Four. Posso ascoltare nuova musica o apprezzare altri artisti, ma quello tra me e i Beatles è, e sarà sempre, un eterno ritorno.
Utente
7 agosto, 2013
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Giudici, Tutor, Pubblico, è giunto il momento. Vi viene richiesto lo sforzo più importante: votare per decretare il vincitore di questa terza edizione di MFS. Nei vostri voti dovranno essere presenti due classifiche, dal primo al quarto posto:
- Una per la proposta del Gala finale.
- Una per il percorso generale di tutta la competizione.
Vi chiedo di specificare gentilmente quale sia una e quale l'altra.
Il voto resterà aperto fino alle 18:00 di lunedì 22/02!
@Casadelvino @Edre @Alby @Krishoes @Emm @NotturnoManto @mrnace @Mavro @sparso @Oblivion. @Targaryen @Alpha @CrYs @KassaD1 @Alabama Monroe @edorf @semota @kairos
Utente
7 agosto, 2013
Vi posto un rapido feedback perchè immagino sarete tutti e quattro pieni di aspettative per la finale, purtroppo domani avrò una giornata inumana per cui ho cercato di racchiudere in poche righe qualcosa di sensato su ognuno di voi.
Pensavo che l’esperienza di MFS2 fosse irripetibile, quindi mi sono approcciato a questa nuova veste a cuor leggero e con molto entusiasmo. Niente di più sbagliato: certo, le emozioni specifiche provate a raccontare Faber e un po’ anche me sono state qualcosa di psicologicamente forte e impegnativo, ma quelle provate a leggere le vostre storie, ascoltare i vostri racconti in musica, sbirciare attraverso i vetri delle vostre case interiori sono state talmente belle e coinvolgenti che, tanto quanto le prime, non le dimenticherò mai. Quindi grazie per come vi siete donati. Per questa finale preferisco tenermi per me alcune piccole considerazioni che mi saranno utili per le classifiche, e al contempo non scandagliare troppo il passato per valutare il percorso in maniera analitica (c’è chi è molto più portato e avvezzo di me a farlo), ma mi lascerò guidare dall’istinto e dall’idea che mi sono fatto di voi. Da ciò che mi avete trasmesso.
Francesco:
Francesco ha fatto un percorso che non mi aspettavo. Se guardiamo la grafica è stato il più altalenante di tutti, tanti picchi e qualche bottom, addirittura un ballottaggio, eppure l’impressione che ho è quella di un racconto completo che non doveva andare diversamente. I Cranberries mi hanno più volte portato indietro negli anni facendomi riprovare sensazioni che non ricordavo, e la figura affascinante e imperiosa di Dolores, che non avevo mai approfondito nelle sue pieghe più nascoste, mi è stata svelata con maestria. Francesco sa scrivere molto bene, non mi stancherò mai di dir(glie)lo, riesce a toccare corde del mio animo come solo in pochi sanno fare. In finale è finalmente arrivato Ode to my family, lo aspettavo, è sempre stato il pezzo che preferisco nella loro discografia e il tratteggio di Francesco è stato un valore aggiunto. Ottima la scelta della riproposizione delle Giunchiglie, brano con cui si è presentato,che l’ha fatto amare a prima vista un po’ da tutti, che ha ricordato a me quanto fosse sensibile e talentuoso. I will always penso che mi sarebbe scivolato un po’ addosso, se non mi fosse stato raccontato così bene: soffermarmi sulle espressioni di Dolores, sulle sue imperfezioni, su una certa ruvidezza adolescenziale mi è stato davvero utile per assaporarla meglio.
Perché Francesco dovrebbe vincere: perché scrive divinamente (sì, l’ho già detto) e sa portarti dove vuole, non puoi non volergli bene. Io gliene voglio molto.
Marcella:
Quanto è stato difficile commentare Marcella in questo periodo. Ogni Galà sentivo la necessità di trattenermi, di non aggiungere nulla a quanto lei aveva detto e soprattutto a quanto non aveva detto. Perché lei è un po’ un geroglifico, non è mai di immediata comprensione, non ti rende facile il lavoro. Tutto quello che lei ti dà, devi guadagnartelo, ed è giusto così. Questa finale (doppietta con l’anno scorso, e poi ancora ha dubbi “se questo gioco è giusto per me”) arriva dopo un percorso costante e con poche sbavature: apparentemente. A me sembra che questa finali arrivi dopo almeno due finali in Galà in cui si è aperta, anzi spalancata, su argomenti in cui non avrei pensato avrebbe trovato non dico il coraggio, perché ne ha da vendere, ma l’entusiasmo, l’energia, la volontà per farlo. Qui ci ha mostrato ancora un’altra sfaccettatura: Sulle labbra è stata rielaborata mostrandoci come i brani non solo abbiano chiavi di lettura diverse a seconda di chi li ascolta, ma anche chiavi diverse a seconda del nostro stato d’animo, ma la perla per me è Orchi e streghe sono soli. Ho conosciuto i due cinni attraverso anni di racconti, e posso solo dire che la Marcella del presente non sarebbe la stessa senza di loro, ergo era l’unico pezzo adatto a parlare dello spirito del “suo presente”. La chiosa è davvero, per restare in tema, una sentenza: e lei ha vinto.
Perché Marcella dovrebbe vincere: perché è come l’alternativa che tutti abbiamo sotto il naso ma ci dimentichiamo che è lì a un passo. E’ la felicità, in questo caso del vivere la musica appieno.
MaryLu:
Una delle mie”fortune” in questa esperienza è stata l’intuizione di chiedere subito il permesso di poter lavorare con MaryLu già al primo Galà. Non so se mi ha spinto il Galà0, l’idea pregressa di Caparezza come un cantante che “mi doveva piacere”, il fascino della discrezione di Abiura che votava a Record Company con garbo e misura. Ho quindi avuto modo di vedere l’impegno che mette in quello che fa, la cura del dettaglio, l’attenzione alle virgole e alle sospensioni, alle immagini e alle atmosfere, alle parole, soprattutto. Lei pesa le parole. Di Galà in Galà ho quindi sempre avuto la percezione dei passaggi che l’hanno portata a determinate scelte. Il suo percorso così apprezzato mi ha reso umanamente felice, perché so quanto vale. In finale, Argenti vive è una scelta molto colta, non so quanto istintiva e quanto calcolata, penso che probabilmente se non avessi letto Una chiave non l’avrei apprezzata quanto l’ho apprezzata oggi. Prosopagnosia è un pezzo che ho risentito volentieri, e poiché fu presentato nel Galà sulla forza delle parole mi dà l’idea di essermi fatto un’idea abbastanza giusta di MaryLu. Abiura di me faccio ammenda: non l’avevo mai sentito. Quando ho scoperto che MaryLu aveva scelto questo titolo come nick sul forum, mi sono trattenuto dall’ascoltarlo e ho voluto aspettare che lo portasse in gara. Il momento è arrivato, e mi ha offerto “una chiave” in più.
Perché MaryLu dovrebbe vincere: perché ho visto Caparezza in lei, e ogni volta che mi capiterà di sentirlo in radio non potrò non vedere in lui questa ragazza riccioluta e determinata.
Irene:
ultima nell’ordine di uscita, un po’ come Faber lo scorso anno. E potrei andare avanti con le analogie ma non voglio gufarti! La proposta che mi ha fatto saltare dalla sedia quando ho letto l’iscrizione di Iry, e su cui riponevo le maggiori aspettative. C’è chi dirà che è partita in sordina, ma non sono troppo d’accordo: c’era bisogno di prendere le misure con la situazione. Presentare la Storia della musica non era cosa da poco, qui è stato fatto un piccolo miracolo perché oltre ai Beatles come entità siamo riusciti a conoscere meglio John, Paul, George e in filigrana anche Ringo, scoprendo quelle piccole differenze artistiche che facevano da contraltare alle grandi differenze caratteriali. Iry è stata un’ottima traghettatrice nella prima fase, poi si è presa la scena e ci ha aperto il suo mondo, fatto di richiami letterari, di sogni, di ricordi, di emozioni, di cultura, di riserbo e di intensità. Help è IL PEZZO, francamente non ha bisogno di alcuna parola, vive di suo. “Guitar” pure, perché è IL SUO PEZZO, e già saper isolare un pezzo all’interno di una discografia talmente vasta e impegnativa non è cosa da poco. Long and winding road invece è IL NOSTRO PEZZO, e questo è il valore aggiunto che porterò stretto tra i ricordi di questa esperienza.
Perché Irene dovrebbe vincere? Perché in poco tempo ha scoperto cosa vuol dire darsi agli altri, e come farlo.
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