goliaPartiamo da una semplice domanda: quante volte abbiamo sentito cantare la vincitrice Elhaida Dani? Prima della finale, nelle dodici puntate andate in onda, Elhaida ha cantato 6 volte: un minutino ai provini, mezza “No more tears” alle Battle e quattro canzoni nel corso dei Live Show. Se ci aggiungiamo che ieri sera l’abbiamo sentita su due soli pezzi nuovi (Margherita col coach Cocciante e I Will Always love you) e su due riproposizioni di brani vecchi, forse qualcosa che stona ci balza già all’occhio.

The Voice of Italy è stata un’enorme nota stonata, su più livelli e con una ripetitività massacrante. S’è voluto far familiarizzare il pubblico italiano con un format nuovo portandolo all’eccesso: 13 puntate da 3 ore l’una (in realtà ieri di più, a caccia di quel dato in share che non è nemmeno arrivato), 64 concorrenti (senza contare quelli scartati) e una struttura che non ha messo in risalto né la musica, né i coach.

Mi avevano fatto ben sperare le prime puntate di provini, nonostante il montaggio mai articolato e lento. Il livello alto, però, salvava la situazione. Tra le Battle e i Live gli evidenti limiti Rai si sono fatti sentire sempre più forti: The Voice è stato il trionfo del pressapochismo e del “fare perché va fatto”. Il format ci impone di essere social? Noi mettiamo una ex veejay a leggere i tweet nei momenti morti dove dobbiamo riallestire il palco. Televoto libero, applicazioni, interattività? Neanche l’ombra. Basti vedere come la redazione web di The Voice ha gestito il tutto: la pagina Facebook e l’account Twitter sono un coacervo di post sgrammaticati, errori madornali (resta storico l’aver taggato un ragazzino di 18 anni di nome William al posto di Will.I.Am) e punteggiatura scadente. Non c’è stata cura per il prodotto, attenzione per lo spettatore. La quantità à la Got Talent ha avuto la meglio sulla definizione dei dettagli, dando luogo a ciò che è stato.

Un programma familiare, senza troppe pretese, con inquadrature sommarie, stacchi di regia incomprensibili, telecamere che saltano, gente che passa davanti alle camere, in penombra, microfoni che saltano, basi troppo alte. Vien da chiedersi a cosa servissero le prove generali che gli addetti ai lavori twittavano compulsivamente, cercando di creare quell’onda d’interesse pre-giovedì che gli account ufficiali non riuscivano a rendere. Perché The Voice dovrebbe essere un evento, da noi era un appuntamento del giovedì. Quanti sono in gara? Quanti ne passano? Chi tifi? Impossibile raccapezzarcisi, su voci spesso uguali e in mezzo a esibizioni amatoriali.

Le canzoni non hanno aiutato: assegnazioni a rincorrere un pubblico adulto, senza poter rinunciare a quel 50% almeno di pezzi in italiano perché “se no la gente cambia canale”. Sorpresa: la gente ha proprio spesso di premerlo, il tasto 2. Perché The Voice poteva e doveva stagliarsi nel panorama di talent show tutti uguali, invece ne è diventato l’emblema. Solo pochi sprazzi isolati chiamati Raffaella Carrà, (in parte) Piero Pelù e la forza del marchio l’hanno risparmiato dalla fine ingloriosa toccata a Star Academy mantenendolo a galla su quei 3 milioni di irriducibili ma stanchi telespettatori.

The Voice non ha generato niente, non ha catalizzato attenzione e curiosità e ha confermato il vizio italico di voler adattare format che altrove funzionano declinandoli in salsa italica, con parrucche, balletti e Noemi che si toglie il resto del catering dai denti.

Ci sarà una seconda edizione, confidiamo che Rai e Toro abbiano la lungimiranza di analizzare ciò che non ha evidentemente funzionato e lavorare seriamente per migliorare un format che merita di meglio, senza l’arroganza di chi sbandiera “ascolti migliori di X Factor”. Perché è meglio deliziarne 700 mila che lasciarne semi-addormentati 3 milioni.

Di Alex87

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